Gli insorti di Budapest accusati di «fascismo»

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I «fatti» sono noti. Nel 1956, a seguito del XX Congresso del Pcus, quello in cui Kruscà«v denunciò i crimini di Stalin, nei Paesi dell’Europa orientale si ebbero una serie di piccole e grandi rivolte da parte di popoli che chiedevano libertà  e democrazia. Il 23 ottobre si mosse l’Ungheria, con una gigantesca manifestazione a Budapest. L’Unione Sovietica reagì inviando i suoi carri armati. Si insediò un governo guidato dal comunista riformatore Imre Nagy. Ma i nuovi progetti di democratizzazione preoccuparono ancor più l’Urss, la quale il 4 novembre spedì l’Armata rossa a deporre Nagy (che due anni dopo verrà  messo a morte) e a reprimere i moti. Il Partito comunista italiano — a dispetto di alcuni suoi intellettuali che solidarizzarono con gli insorti — non ebbe esitazione, per via della risolutezza in tal senso del segretario Palmiro Togliatti, ad appoggiare la scelta di Mosca. E bollò quelli che da allora furono definiti, con un eccesso di eufemismo, i «fatti di Ungheria» come un tentativo controrivoluzionario contrastato dall’«aiuto fraterno» dell’esercito che aveva sconfitto i nazisti. La parola «fatti» come sinonimo di «invasione» tornerà  ancora più e più volte sulla stampa del Pci. Addirittura nel gennaio 1969 — quando il giovane Jan Palach si diede fuoco per attirare l’attenzione internazionale sul regime dispotico instauratosi in Cecoslovacchia a seguito dell’ingresso, il 21 agosto precedente, dei carri armati russi — l’«Unità », organo di un Pci che pure aveva espresso una cauta riprovazione per l’accaduto, scriverà  che il ragazzo aveva voluto protestare «contro l’attuale situazione politica nel Paese, determinatasi dopo i fatti di agosto».
Tornando all’Ungheria, sotto il profilo storico non c’è molto di più da scoprire rispetto a quel che è già  stato scritto — solo per citare alcuni autori — da Victor Sebestyen in Budapest 1956. La prima rivolta contro l’impero sovietico(Rizzoli); da Enzo Bettiza in 1956: Budapest, i giorni della rivoluzione (Mondadori); da Federigo Argentieri e Lorenzo Gianotti in L’ottobre ungherese (Valerio Levi editore); da Ferenc Fehér e Agnes Heller in Ungheria 1956(SugarCo); da Franà§ois Fejtචin Ungheria 1945-1957 (Einaudi). E, per ciò che riguarda le tensioni tra il Pci e i suoi uomini di cultura, da Giancarlo Pajetta in Le crisi che ho vissuto (Editori Riuniti); nel libro curato da Roberto Ruspanti Ungheria 1956. La cultura si interroga (Rubbettino); da Paolo Spriano in Le passioni di un decennio 1949-1956 (Garzanti) e da Giuseppe Vacca in Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956 (Editori Riuniti).
O meglio, qualcosa meriterebbe di essere approfondito: ciò che ne scrissero giornali e periodici del Pci o ad esso riconducibili. Ed è questo il lavoro al quale si è accinto con grande scrupolo ed eccellente mestiere Alessandro Frigerio con un risultato che lascerà  un segno: il libro, venuto fuori da questa ricerca, si intitola Budapest 1956. La macchina del fango. La stampa del Pci e la rivoluzione ungherese: un caso esemplare di disinformazione, ed è edito da Lindau. Quella ungherese è stata infatti una «rivoluzione calunniata» (così la definì già  nel 1996 Federigo Argentieri, in un volumetto che divenne un piccolo caso dal momento che fu pubblicato dall’Arca, società  editrice dell’«Unità »). Ed è di grande interesse rivisitare merito e metodo di quelle lontane diffamazioni. L’intervento dei carri armati russi, scrive Frigerio, fu difeso a spada tratta grazie alla «volontaria complicità » della maggior parte del mondo culturale che gravitava intorno al Pci. Difeso «anche quando era ormai evidente che l’esercito sovietico stava schiacciando una rivoluzione di popolo in cui l’unica vera contaminazione non era rappresentata da fantomatiche forze restauratrici, bensì dai consigli operai». 
Fino al 23 ottobre, il giorno della grande manifestazione a Budapest, la percezione dell’«Unità » di quel che stava accadendo in Ungheria fu (o volle essere) nulla. Quello stesso 23 ottobre un breve articolo in pagina interna dava notizia in modo anodino di una discussione all’università  di Szeged e veniva segnalato un dibattito «vivace» tra gli studenti al Politecnico della capitale ungherese. Il 24, tra le quattro edizioni dell’«Unità » (romana, milanese, torinese e genovese) quella più decisa nel lanciare l’anatema contro l’inizio della rivolta fu «l’Unità » di Milano, diretta da Davide Lajolo, con il titolo «Tentativo reazionario di distorcere il processo di democratizzazione. Scontri nelle vie di Budapest provocati da gruppi armati». L’edizione torinese, diretta da Luciano Barca, fu molto più cauta. Un articolo di Adriana Castellani raccontava di giovani «scalmanati» e «facinorosi» che avevano dato l’assalto alla sede della radio di Stato, fronteggiati da poliziotti dal «contegno calmo». Quel giorno, il 24, ci fu l’ingresso dei carri armati russi e, l’indomani, «l’Unità » di Milano titolò: «Il governo ha fatto appello al popolo contro il tentativo di una restaurazione reazionaria. I controrivoluzionari si arrendono a Budapest dopo i sanguinosi attacchi al potere socialista». Stavolta l’edizione torinese fece un titolo ugualmente allarmato. Già  quel giorno comparve l’evocazione dell’ammiraglio Miklos Horthy, che nel 1919 aveva travolto il regime comunista di Béla Kun, e aveva poi governato l’Ungheria tra le due guerre, per schierarsi infine a fianco dell’Italia fascista e della Germania nazista. All’eredità  di Horthy, secondo il quotidiano comunista che di ciò non portava nessuna prova (e non avrebbe potuto dal momento che di evidenze non ce n’era neanche una), avrebbero fatto riferimento gli studenti in rivolta.
Il direttore dell’«Unità » di Roma, Pietro Ingrao ammetteva la possibilità  del dubbio («Domani si potrà  discutere e anche differenziarsi sui modi e sui tempi della rivoluzione socialista»), ma aggiungeva che «quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall’altra della barricata»: in poche parole che bisognava schierarsi a favore dell’invasore russo. Ingrao, in seguito, tornerà  su quell’articolo: nel 1986 (trent’anni dopo) concederà  che tra coloro che si opponevano all’Urss, insieme ai reazionari, c’erano persone rimaste «fedeli agli ideali socialisti»; nel 2001 definirà  «pessimo» (e qui di anni ne erano trascorsi 45) quel suo articolo di fondo del 1956.
Ma l’editoriale di Ingrao non fu la cosa peggiore pubblicata sulla stampa comunista in quella circostanza. Le cronache del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, scritte da Praga, erano firmate da Orfeo Vangelista, il quale sostenne subito che il movimento di rivolta rivelava «una chiara impronta provocatoria» e che dietro quelle masse in ebollizione si intravedeva nitidamente la regia di «forze non solo interne ma straniere». Niente di questo, sia detto per inciso, fu poi provato. Vangelista scrisse il primo giorno (quando ancora si pensava che la rivolta non fosse contro il partito comunista ungherese) che i manifestanti del 23 ottobre erano stati centomila; il giorno successivo sostenne che erano stati diecimila. Poi iniziò a parlare dei «massacri di comunisti»: «gruppi di squadristi», scriveva, «sono penetrati nelle abitazioni dei dirigenti sindacali e di partito e li hanno tirati fuori trucidandoli davanti alle porte di casa». Nessun cenno agli spari sulla folla da parte della polizia politica. Secondo «l’Unità », già  la sera del 24 ottobre l’ordine era stato ristabilito a Budapest e nella titolazione di prima pagina del 25 — a differenza di quel che già  era pubblicato sui giornali di tutto il mondo — non si faceva menzione dell’intervento sovietico. Mentre veniva costituito il governo presieduto da Imre Nagy, «l’Unità » sentenziava: «Il fatto che la sommossa controrivoluzionaria sia stata sconfitta, non può che essere salutato da ogni democratico sincero». Non si parlava sul giornale comunista né dei «consigli operai» né del fatto che alcuni reparti dell’esercito si erano schierati a fianco dei manifestanti. In occasione dell’assalto alla sede della radio, il quotidiano del partito di Togliatti ometteva di menzionare le vittime provocate dalla polizia del regime. Tutti i morti venivano messi nel conto delle «sparatorie dei rivoltosi».
A questo punto si pone una domanda: era possibile, già  in quei giorni, conoscere e capire quel che stava realmente accadendo in Ungheria? Sì, gran parte dei giornali anglosassoni e dei più importanti quotidiani italiani pubblicavano cronache sufficientemente obiettive. E anche il leader socialista Pietro Nenni (che, a seguito anche di quella vicenda, si stava riavvicinando al socialdemocratico Giuseppe Saragat) scriveva sull’«Avanti!» essere quello ungherese «un combattimento fratricida in cui la linea divisoria non passa tra partigiani e nemici del socialismo, ma ha trovato da una parte operai e studenti, i quali volevano sul serio la liberalizzazione, la democratizzazione degli istituti politici e della vita pubblica (e la purezza delle cui intenzioni non può essere offuscata dalla schiuma fascista che certamente s’è mescolata alla limpida corrente delle rivendicazioni popolari) e dall’altra un vecchio gruppo dirigente comunista, che ai suoi errori di direzione politica, ai suoi crimini, ha aggiunto l’appello insensato alle truppe sovietiche».
«L’Unità » evitò di attaccare Nenni, preferì prendersela con Saragat assimilandolo ai «cani arrabbiati» americani che «sognavano la bomba atomica sul Cremlino» e accusandolo di essere in preda a «un autentico rigurgito scelbiano» che lo aveva indotto a lanciare «oscure (ma non troppo) minacce contro i comunisti». A sistemare Nenni ci avrebbe pensato, nel mondo socialista, un autorevole italianista, Giuseppe Petronio, il quale, sulla rivista vicina al Psi «Mondo Operaio», perorò anche «la necessità  ineluttabile, a un certo momento, della “rivoluzione”, del “salto qualitativo” che porti, e non conta per quali vie, dal mondo borghese al mondo socialista». Una corrente filocomunista di dirigenti del Psi, che appoggiavano i carri armati sovietici (e che perciò furono detti «carristi»), si manifestò fin dall’inizio. Ma grande fu la sorpresa quando al loro fianco si schierò Sandro Pertini, il quale sostenne che in Ungheria i comunisti venivano «torturati, trucidati, impiccati», per poi giungere a questa conclusione: «Se tacessimo considerando questa bestiale reazione una logica conseguenza delle responsabilità  dei dirigenti comunisti da noi tempestivamente denunciate, cesseremmo di essere socialisti, e diverremmo, sia pure inconsapevolmente, complici della reazione che in Ungheria tenta di riaffermare il suo antico potere». Pertini faceva poi appello alla «solidarietà  di classe che ogni socialista deve sentire in ogni circostanza, ma in modo particolare quando sulla classe operaia sovrasta la tempesta, perché è troppo agevole essere con la classe operaia soltanto nelle giornate di sole».
Numerose furono le esagerazioni e (spesso) i veri e propri falsi. «L’Unità » diede notizia dell’assalto a «Szabad Nép», organo del partito comunista ungherese, nel corso del quale sarebbero stati uccisi «tutti i redattori» (in verità  ci fu soltanto un morto, vittima di un colpo partito accidentalmente). Il quotidiano annunciava l’uccisione del campione di calcio Ferenc Puskas «caduto in combattimento contro gli insorti» (anche questa notizia si rivelò infondata). L’organo del Pci pubblicava in prima pagina una foto del capo della polizia di Mosonmagyarovar ricoverato in un ospedale dal quale, riferiva la didascalia, sarebbe stato successivamente prelevato per essere linciato (omettendo il particolare che quell’uomo due giorni prima aveva ordinato ai suoi di aprire il fuoco sulla folla). Si dava la notizia (non vera) che in Ungheria «avrebbero tentato di atterrare aerei provenienti dall’Occidente portanti armi per i rivoltosi». Anzi si specificava che «in parte sarebbero già  atterrati in diverse località ». Si parlava (Giuseppe Boffa, da Mosca) di migliaia di quadri del partito comunista ungherese «assassinati, squartati, impiccati, decapitati, bruciati vivi dalle squadre di rivoltosi più ferocemente oltranzisti e fascisti» (al processo contro Nagy, il partito comunista ungherese dirà  ufficialmente che gli uccisi dai «controrivoluzionari» erano stati in tutto 234). Dell’odissea che condurrà  Imre Nagy (sequestrato dai sovietici dopo la seconda invasione) al patibolo, l’«Unità » dipingerà  un quadretto idilliaco: il deposto capo del governo e i suoi collaboratori erano «partiti in autobus per concedersi un periodo di riposo in Romania»; poi Nagy si era trovato in compagnia di amici «in un’amena località  in Transilvania», e una persona di fiducia avrebbe telefonato per tranquillizzare i suoi familiari circa la sua «ottima sistemazione», il suo «buon umore», il «tempo magnifico dei Carpazi» e persino «la sua soddisfazione di essere lontano dagli avvenimenti ungheresi». E quando Nagy verrà  ucciso, Luigi Pintor rimprovererà  al socialdemocratico Paolo Rossi di aver manifestato il proprio cordoglio senza «dire una parola sui torturatori algerini» e ai democristiani, «soddisfatti che i crocefissi abbelliscano le galere spagnole», di essersi «sbracciati per l’esecuzione dei capi rivoltosi in Ungheria», creando così «un fronte politico con i fascisti repubblichini». 
A differenza del modo di argomentare di dirigenti del Pci come Antonio Giolitti e Fabrizio Onofri, quanto meno dubbiosi nei confronti delle scelte compiute dal segretario del partito, la polemica dei seguaci di Togliatti fu bestiale. «Toni più pacati», registra Frigerio, furono quelli di Antonello Trombadori che, sul «Contemporaneo», esortò a tener presente che i dirigenti ungheresi avevano fatto ricorso a «metodi repressivi che arrivarono sino alla persecuzione di leali e illuminati combattenti per il socialismo». Così come il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio — in seguito costretto all’autocritica — elogiò gli insorti e disse con chiarezza che nelle manifestazioni non c’erano affatto «forze di popolo che richiedono il regime di terrore fascista di Horthy». Le parole di Di Vittorio furono riportate da tutti i giornali, tranne «l’Unità ». Sul quotidiano comunista, Alberto Jacoviello scrisse qualche iniziale reportage in cui trattava la rivolta d’Ungheria come un genuino movimento di popolo (Togliatti, per tutta risposta, gli rimproverò la frequentazione di troppi giornalisti «borghesi»). Su iniziativa di Carlo Muscetta, un gruppo di intellettuali (101) sottoscriveva un manifesto che, pur con toni giudicati non a torto da Frigerio «estremamente cauti, generici, rispettosi nei confronti del partito», esprimeva solidarietà  agli insorti di Budapest: molti di loro, nei giorni successivi, furono costretti ad un pubblico pentimento per quel documento, peraltro anch’esso mai pubblicato dall’«Unità ». Il direttore del giornale filocomunista «Paese Sera», Tomaso Smith, diede alle stampe le corrispondenze assai poco ortodosse di Giorgio Bontempi ed esponendosi in prima persona domandò: «Perché si parla di movimento controrivoluzionario quando l’intero popolo magiaro — lavoratori, contadini, studenti, soldati, intellettuali — è insorto in difesa del vero socialismo e della vera democrazia che esigono, sì, disciplina e consapevolezza, ma non comportano coercizioni e arbitrii?»
I grandi nomi della cultura, però, si schierarono tutti (o quasi) dalla parte di Togliatti. Concetto Marchesi: «Alla cagnara reazionaria, clericale e fascista che si è scatenata sui fatti di Ungheria non intendo associare la mia voce; se taluni comunisti lo hanno fatto, tanto peggio per loro e tanto meglio per il nostro partito». Lucio Lombardo Radice, con uno sperimentato artificio retorico, così si rivolse a un «professore universitario ungherese» che avversava gli insorti: «Compagno, oggi io non posso pronunciare per intero il tuo nome su queste colonne, sulle colonne dell'”Unità “, potrebbe forse significare la tua condanna a morte da parte dei gruppi armati dell’estrema destra… non voglio essere io, io che oggi non penso che a te, fratello e compagno, a indicarti agli assassini». Augusto Monti, ricorrendo ad un altro artificio retorico, così proseguì: «Chissà  che croce addosso anche a me, domani, se comparissero queste mie dichiarazioni e io fossi messo nel numero — picciol numero a quanto pare — di “coloro che giustificano l’intervento dell’Urss in Ungheria”; ma io, se accadrà , me ne riderò, parendomi assai più giusto e onesto stare oggi con questi pochi e non confondersi con quei molti». Poche righe dopo, Monti se la prenderà  con «quei socialisti e perfin quei comunisti che uniscono le loro voci al coro dei muggiti borghesi». Ranuccio Bianchi Bandinelli farà  valere l’assenza di prove documentarie, se non qualche «fotomontaggio», dei «massacri sovietici», mentre «i massacri anticomunisti sono stati documentati ampiamente da fotografie». Antonio Banfi accuserà  Imre Nagy di essere rimasto inerme di fronte «alle violenze terroristiche scatenate dai rappresentanti del vecchio nazismo alimentato dalla tradizione feudale e clericale». Su «Vie Nuove», il dirigente del Pci Velio Spano ebbe l’idea di raccontare di (inesistenti) «teste di comunisti mozzate ed esposte come trofei sulle picche». E quando, dopo la seconda invasione sovietica, molti ungheresi cercarono di lasciare il Paese, «l’Unità » parlò di «una minoranza che, resasi colpevole di massacri o presa dal panico, cerca oggi di fuggire dall’Ungheria». 
Possibile che nessuno si accorgesse dell’enormità  di questi toni e di questi argomenti? Lo scrittore Carlo Cassola si allarmò per questo modo di «difendere» l’Urss e così scrisse ad Antonello Trombadori, in una lettera privata che sarebbe stata resa pubblica molti anni dopo da Paolo Spriano: «Vi rendete conto che siamo ormai alla svolta, al punto critico? Non credo che i dirigenti di un partito, i quali definiscono “bande armate controrivoluzionarie” i rivoltosi di Budapest, possano essere più creduti da nessuno… nessun governo che si metta contro quella che è l’evidente volontà  del popolo ungherese, e tacci di fascisti gli operai, gli studenti e i soldati, può restare in piedi ventiquattr’ore; cos’hanno nel cervello Togliatti e compagni?». Sbagliava. Purtroppo. Allo stesso Trombadori scriverà  Togliatti, per lamentarsi del fatto che i comunisti dell’Einaudi, con in testa Italo Calvino, avevano preso posizione contro l’invasione sovietica: «I controrivoluzionari della cellula Einaudi di Torino», li definirà  il segretario del Pci. Nelle sue memorie Davide Lajolo, che in anni successivi dirà  di aver nutrito qualche perplessità  sulla linea scelta da Togliatti, racconterà  che ogni mattina si affacciava alla porta della sua stanza Salvatore Quasimodo e gli diceva: «Tieni duro!».
Invano su «Mondo Operaio» — rivista dalle cui pagine Franco Fortini osò polemizzare direttamente con Togliatti — l’intellettuale magiaro Tibor Méray avvertiva: «Non uno degli scrittori deportati o internati è stato seguace del cardinale Mindszenty, non uno che sia un fascista, un legittimista, un horthysta». E infatti molti tra i leader della protesta avevano partecipato alla Resistenza e i più giovani erano operai iscritti al partito. Niente da fare. Particolare esecrazione è mostrata dall’«Unità » per i membri del Consiglio operaio in rivolta. Con un clamoroso capovolgimento, gli operai di Budapest («elementi declassati, divenuti operai negli ultimi anni», si minimizzava) che avevano aderito in massa alla rivoluzione erano accusati di aver spalancato le porte ai nemici di classe, e nel contempo venivano elogiati contadini e piccoli proprietari rimasti in disparte (anzi, secondo «l’Unità », erano stati «i primi ad invocare l’adozione di drastiche misure contro coloro che minacciavano di aprire la strada al ritorno del feudalesimo»). I giovani operai vengono definiti «giovinastri», «sfaccendati», reclutati da «ufficiali horthysti» in ragione del loro «primitivismo» e «infantilismo politico».
Stesso discorso vale per i loro coetanei italiani, studenti che «hanno disertato le aule per inscenare una manifestazione» unendosi ad «alcuni gruppi di persone estranee alla scuola». Il «Contemporaneo» parla di ragazzi tra i dodici e i quattordici anni «lasciati in libertà  dai loro compiacenti presidi i quali tra un evviva e l’altro lanciato all’indirizzo dei lavoratori ungheresi, con manate sulle spalle, spinte e calci agli stinchi, esternavano la propria soddisfazione per aver potuto saltare un altro giorno di scuola». Il già  citato Augusto Monti scriveva d’aver saputo che un gruppo di Civitavecchia aveva organizzato una «novella marcia su Roma» e ne traeva la conclusione che l’Ungheria «s’apprestava a essere la più vasta incubatrice d’un più vasto neofascismo non più italiano ma europeo». Sulla stessa lunghezza d’onda, il giornalista e scrittore Aldo De Jaco giurava di aver visto attorno alle manifestazioni di solidarietà  all’Ungheria in lotta «i volti noti degli agenti in borghese, col manganello e la pistola nascosta sotto il vestito» impegnati a «far largo alla gente, fermare le macchine, far da maestri di scuola a questa impresa per ragazzi». Sicché il ricordo andava alla sua «trista stagione» di liceale durante il ventennio mussoliniano, «quando mi ritrovai un giorno a camminare con una grande bandiera con la croce uncinata davanti, uscita da chissà  dove, e un tedesco sul marciapiede ci faceva le fotografie e un ragazzo agitato ci guidava» (episodio che, ad ogni evidenza, aveva lasciato una traccia per lui alquanto imbarazzante). Contro Jean Paul Sartre, che aveva osato manifestare dubbi sul comportamento sovietico, scendevano in campo Augusto Pancaldi («Sartre non si differenzia più dalla massa urlante che invoca la caccia al comunista»), Carlo Salinari e Michele Rago i quali sostenevano, non si sa sulla base di quale elemento, che fin dalle prime manifestazioni (come quella silenziosa del 6 ottobre in occasione dei funerali postumi dell’ex ministro dell’Interno Laszlo Rajk, impiccato nel 1949) si potevano individuare personaggi «coscientemente controrivoluzionari». Adesso, nel 1956, «l’Unità » definiva Rajk come «martire». Quella definizione di «martire» tornerà  sul giornale comunista nel 1989 in occasione delle esequie postume di Nagy (31 anni dopo la sua impiccagione), onoranze funebri alle quali parteciperà  l’ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto. Giusto in tempo: mancavano poche settimane alla caduta del muro.


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