L’antipolitica della rassegnazione

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Molto c’è da imparare dalle elezioni francesi. Malgrado l’allarme seminato a piene mani, l’astensione è cresciuta sì di quattro punti ma non nella misura da qualcuno preventivata. Siamo a un livello fisiologico per le presidenziali transalpine. Al contempo, la sinistra popolare s’è ripresa e ha quasi raddoppiato i suoi voti. Una fascia d’elettorato ha ripreso coraggio. Un terzo dato è il successo di Marine Le Pen. Un disastro, che ahimè conferma di un’inquietante, e sottovalutata, tendenza a radicalizzarsi dell’elettorato moderato. Quanto alla bocciatura di Sarkozy, è un segno di rigetto, variamente articolato – da quello moderato degli elettori di Hollande a quello risoluto degli elettori di Mélenchon, fino a quello estremistico di chi ha votato Le Pen – del personaggio, ma ancor di più delle politiche imposte dall’Ue (e dalla Germania).
Lo chiamano rigore, ma è solo revoca. Dello Stato sociale e della società  del lavoro. Il successo di Mme Le Pen, e del suo appello palesemente razzistico, fa paura. Ma sempre di rigetto si tratta. Parte di un più ampio rigetto nei riguardi di un’Europa che non protegge i suoi cittadini, né gli assicura condizioni di vita dignitose per il futuro. La sorte toccata alla Grecia l’abbiamo vista tutti. È questa antipolitica? Ma finiamola! 
I risultati francesi mostrano piuttosto che i cittadini non ce l’hanno affatto con la politica come tale. Sono scontenti per come è fatta e per le politiche che i politici fanno. Ne consegue che dolersi del successo dell’antipolitica, ci si è messo da ultimo Pierluigi Bersani, non serve a nulla. Rischia d’essere un alibi, mentre c’è da rimboccarsi le maniche e inventarsi un’altra politica. Che corrisponda a almeno quattro esigenze. La prima è rimediare al deficit di moralità  dei politici: non di tutti, perché non tutti sono immorali e hanno le medesime responsabilità . La seconda è accorciare la distanza tra politici e cittadini: è un problema, quest’ultimo, che si pone dappertutto. La terza esigenza è fornire risposte diverse da quelle correnti ai problemi attuali. La quarta è finirla con un modo di far politica che ha fatto della denigrazione e lamentazione antipolitica la sua arma preferita.
Iniziamo dal fondo. Basta con l’allarmismo antipolitico! Le malefatte della Lega, e quelle della giunta Formigoni, mostrano come pure nelle regioni più prospere la politica possa degenerare. Ma il rimedio non sta né nell’accomunare tutti i politici, né nel riporre miracolistiche attese nei tecnici o nel leader salvatore, accantonando i partiti. Purtroppo, non c’è solo la denigrazione triviale operata da qualche demagogo, ma pure quella più sottile di tanti dirigenti democratici e opinion-makers. È un gioco da non giocare, perché intossica il senso comune e delegittima la democrazia.
Per curare il deficit di moralità  servono invece misure ben temperate. La moralità  dipende prima dagli uomini che dalle leggi. Ma una severa normativa sul finanziamento pubblico dei partiti, che in democrazia è condizione necessaria, può aiutare e non è impresa impossibile. Basta destinare risorse finanziarie ragionevoli e contenere spese elettorali ormai senza senso, istituendo rigorosi controlli. Dunque norme ben più serie di quelle avanzate finora dai partiti che sostengono il governo. 
Serve pure un’appropriata legge elettorale. Che preveda scelte semplici e chiare e non trucchetti. Né premi di maggioranza, né miscele astruse tra sistemi diversi. Non c’è il sistema perfetto. Ma tra il perfetto e il ripugnante c’è di meglio dell’alchemico intruglio che stanno a quanto pare allestendo i partiti di maggioranza. Che sembrano volersi ritagliarsi la legge elettorale su misura.
Selezione, e moralità , del personale politico spettano però anzitutto ai partiti. Sono essi che comunque decidono quanta moralità  vogliono e se i candidati vanno scelti dal centro, o dalle istanze locali, dalle lobby e quant’altro. Sono dilemmi connessi a quel che i partiti intendono essere. Agenzie di marketing elettorale o tramite tra politica e società ? La militanza diffusa e il complesso insediamento territoriale propri delle macchine di partito in uso fino a un quarto di secolo fa sono divenuti impensabili. Ma nulla di sicuro impedirebbe ai partiti di attivare la foltissima e discretamente remunerata schiera dei loro eletti: nazionali, regionali, locali. Sono soldi ben spesi se i politici davvero lavorano alla manutenzione della democrazia.
Capita da molte parti. La rappresentanza non si riduce a sedere nelle assemblee elettive, ma nell’interagire in permanenza con gli elettori. I deputati francesi vi dedicano almeno metà  del loro tempo. In Italia è arduo incontrare anche solo un consigliere comunale. D’altra parte, anziché inventarsi candidature discutibili, di fiduciari di questo o quel leader, o d’improbabili esponenti della società  civile, perché non promuovere gli eletti locali dalle assemblee di rango inferiore a quelle di rango superiore? Vuoi essere candidato? Prova a meritarlo!
Un progetto politico è l’ultimo irrinunciabile rimedio. Il discorso è lungo, ma il rigore senza prospettive non è una politica. È la sua mortificazione. Ciò non vuol dire giustificare gli sprechi. Ma la politica non può sempre giocare in difesa, deve disegnare un futuro. Rassegnarsi all’idea che le generazioni a venire siano per la prima volta condannate a star peggio di quelle che le hanno precedute non è un gran modo di far politica.


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