Tacito, estimatore latino della stirpe germanica

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C ornelio Tacito, l’autore degli Annali e delle Storie, uno dei massimi storici del mondo antico, non riscuoteva le simpatie di Napoleone, che lo riteneva un aristocratico rancoroso, del vecchio partito di Bruto e Cassio, incapace di comprendere «la grande unità  dell’Impero, che anche con prìncipi mediocri e mezzo folli, manteneva tanti popoli nell’obbedienza all’Italia romana». In realtà , Tacito apparteneva alla razza di Cicerone: non gli stava a cuore un partito, ma lo Stato e il diritto, anche se, a differenza dell’Arpinate, non credeva nel governo misto e nella possibilità  di reggere l’impero con le istituzioni repubblicane.
Ciò non gli impedì di denunciare il sordido servilismo degli anni tra Tiberio e Domiziano. «Si dice che Tiberio ogni qualvolta usciva dalla Curia soleva dire in greco: “O uomini pronti soltanto a servire!”. Anche lui, che pure era nemico della libertà , sentiva il disgusto e lo spregio verso una così vergognosa sottomissione di servi». Non meraviglia che Tacito abbia ispirato poeti e tragediografi — il Britannicus di Racine, l’Othon di Corneille, il Tibère di M.J. Chenier, l’Ottavia di Alfieri — e che Hayek ne abbia inserito il pensiero tra gli incunaboli dell’individualismo liberale. Per l’illuminista Léon Thomas, che lo aveva definito il «Michelangelo degli scrittori», «Filippo II, Enrico VIII e Luigi XI non avrebbero mai visto Tacito in una biblioteca senza sentire un brivido». 
È singolare il destino di questo «odiator de tiranni» che, per il suo studio del 98 d. C., La Germania, sarebbe diventato la fonte preferita dei teorici del Volk e del nazionalsocialismo. «Il ritorno alle radici germaniche — ricorda lo storico George L. Mosse — richiedeva la concentrazione dello sguardo, degli interessi sull’antica Germania tribale, in cui le virtù tradizionali erano intatte». Nella descrizione di Tacito, assieme alle ombre — l’ubriachezza criminogena, la passione dei dadi, il disprezzo del lavoro — emergono non poche (presunte) «luci» — la purezza razziale, la fedeltà  coniugale, il coraggio, la lealtà  â€” che diventavano i simboli della Kultur tedesca contrapposta alla Zivilisation romana e occidentale. I germani assurgevano ad antitesi del materialismo contemporaneo. «Ritengono delitto limitare le nascite dei figli o sopprimere qualcuno dei figli nati dopo il primo (…) i buoni costumi hanno un valore maggiore di quello che hanno altrove le buone leggi». Sennonché accanto a queste, v’erano altre «virtù», che sembravano, poi, contraddire l’immagine del tedesco, che «ara e semina», esaltato da Walter Darré, il Fà¼hrer degli agricoltori ariani. «Non sarebbe tanto facile persuadere i germani a lavorare la terra e ad aspettare il raccolto, quanto a sfidare il nemico e a conquistarsi l’onore delle ferite. Anzi, v’è di più: essi ritengono prova di ignavia e di viltà  acquistare col sudore ciò che è possibile procurarsi col sangue».
Va rilevato, tuttavia, che nel saggio c’erano anche altre questioni sulle quali non si soffermavano gli sguardi della tedesca «rivoluzione conservatrice» e dell’ideologia nazista e che riguardavano, soprattutto, la ripartizione del potere e dell’autorità . In pagine di non facile interpretazione, Tacito non parla soltanto del comitatus, ossia del vincolo personale di fedeltà  che unisce i guerrieri — «i giovani si pongono al seguito dei più forti di loro, il cui valore è già  stato messo alla prova» — un tema caro ai teorici ariani, ma descrive, altresì, istituti assai più vicini alla nostra sensibilità  liberaldemocratica: la limitazione del potere regale, le deliberazioni prese in comune, lo status di libertà  e di eguaglianza di cui godevano gli uomini, le carriere militari aperte al merito, una nobiltà  riverita ma priva di poteri. Insomma un misto di democrazia militare e di liberalismo «selvaggio» che, come mette in luce una grande studiosa, Anna Maria Battista, è la chiave per comprendere Lo spirito delle leggi di Montesquieu. È soprattutto da Tacito che deriverebbe la tesi che la libertà  dei moderni «ha le sue radici nelle istituzioni di quei germani che invasero gran parte d’Europa, trapiantandovi le loro usanze politiche e civili». Indubbiamente Montesquieu forzava il testo tacitiano. Più saggiamente Guizot avrebbe scritto che «i germani portarono sul suolo romano la loro libertà , ma nessuna di quelle istituzioni che ne regolano l’uso e ne garantiscono la durata: gli individui erano liberi, una società  libera non s’era costituita. Anzi non c’era società ».


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