Corvo Il simbolo di tutte le trame dentro i palazzi del potere

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Corvi, d’accordo, ma anche vipere, talpe, sciacalli, avvoltoi. E poi, almeno a Roma, ci sarebbero i sorci, non solo in Vaticano considerati delatori di infimo ordine.
Vasto è infatti lo zoo della denigrazione incognita. Narra la leggenda che un giorno il presidente del Consiglio Spadolini, insigne storico del potere temporale ed ex direttore del Corriere della Sera, sottopose ai suoi più fidati collaboratori un dilemma su una strana figura di ecclesiastico sospettato di passare informazioni all’esterno: «Grande verme – chiese pensoso – o piccolo serpente?».
Si parte dunque da una condizione animale, ma proprio per questo circonfusa da un alone mitico e dotata di notevole carica narrativa. Basti pensare che dieci anni orsono, con l’acclarato pseudonimo di Franco Mauri, l’ex presidente della Repubblica Cossiga scrisse per Libero due racconti di fanta-realtà  intitolati l’uno Il giorno del corvo e l’altro Il ritorno del corvo. Potere, quattrini, sesso, malattie, debolezze umane: ci si potrebbe tranquillamente scrivere la storia d’Italia con le false verità  e i catastrofici appelli dei corvi, anche se non sempre le semplificazioni giornalistiche rendono giustizia a una categoria così complessa e articolata da sfumare nella caotica calunnia e nell’indistinto mestatorio.
E comunque. Qualsiasi vero romano sa che i sacri palazzi sono la più grande centrale di diffamazione sul nemico della porta accanto, una tale agenzia di trappole e cattiverie da far sembrare la Rai e il Transatlantico come due luoghi quasi innocenti. E questo ben prima dell’epopea truffaldina di monsignor Cippico, detto “Monsignor Cagliostro”, che riuscì a evadere dal carcere vaticano della Torre dei venti; ben prima delle stupefacenti rivelazioni del giornalista e falsario Scattolini che fece fesso il capo dell’Oss Angleton; e prima ancora che l’archiatra di Pio XII, Galeazzi Lisi, successivamente detto “il corvo della Leica”, si vendesse le foto dell’agonia del suo illustre paziente.
È sempre stato così. Con il grazioso risultato che da Sindona a Calvi fino ad Alì Agca e a Emanuela Orlandi, passando per l’avvelenamento di Papa Luciani, la strage delle guardie svizzere e le perenni disavventure dello Ior, la Santa Maldicenza fornisce ai corvi vaticani la più abbondante razione di polpette di zizzania e crostini scottadito. I quali a loro volta trovano sfogo non solo in un’incessante produzione di lettere anonime per così dire private, ma anche in una fioritura di libelli – una dozzina almeno ne ha pubblicati a partire dal 1998 la casa editrice Kaos, tra i più tosti Via col vento, Bugie di sangue, Fumo di Satana in Vaticano – attraverso cui singoli ecclesiastici o gruppi di prelati in vena di moralizzazione additano al pubblico ludibrio le peculiari perfidie della Santa Sede.
Nel 1999 fu pizzicato come gracchiante autore un anziano monsignore, a nome Marinelli, che si firmava “I Millenari”: ma il destino paradossale dei corvi è che una volta scoperti, ritornano nell’anonimato o nell’oblio, e altri neri volatili proseguono la loro opera – non necessariamente inutile, occorre riconoscere, né sempre spregevole – al di qua e al di là  del Tevere.
Difficile è capire cosa fa dell’Italia l’ideale patria dei corvi. Se l’idea del nemico in casa accende le menti, e l’ossessione del traditore infiltrato è tra i segni inconfondibile del discorso paranoico, è anche vero che un potere chiuso e incapace di auto-riformarsi genera di per sé misteri, segreti, sospetti, allusioni, insinuazioni, di conseguenza alimentando spifferi, soffiate, veline diffamatorie, pacchetti avvelenati, colpi bassi e pallottole vaganti. 
Di solito i potenti adorano gli spioni e i mestatori di razza lo sanno benissimo e ne approfittano. Da questo punto di vista si può dire che la polizia fascista, l’Ovra, mise in piedi una rete eccellente di corvi, ma poi anche i servizi segreti – vedi le denigrazioni mirate dell’affare Montesi o i 157 mila fascicoli raccolti dal Sifar – perfezionarono quei metodi, non di rado facendo sì che documenti e rivelazioni finissero anche sui giornali.
E tuttavia l’epiteto di corvo è abbastanza recente, fine anni 80, e proviene dalla Sicilia dove l’insidia anonima è un arte raffinatissima praticata anche nei caffè o dal barbiere. L’atto fondante della famiglia degli accusatori furono certe lettere in cui si diceva che Falcone aveva in pratica concesso licenza di uccidere ad alcuni pentiti. Fu allora avventurosamente accusato un giudice di averle scritte, ma in seguito venne scagionato. A distanza di 23 anni il dubbio è che le abbia fatte scrivere Totò Riina. 
Sta di fatto che da allora i corvi volteggiano sulle procure. Una piccola e sommaria ricerca sulla benemerita banca dati dell’Ansa dal 1995 in poi indica la loro presenza a Brescia (inchiesta Di Pietro), Bologna (caso Uno bianca), La Spezia (vicenda Necci), Napoli (presunti rapporti tra giudici, poliziotti e camorra), Catanzaro (toghe lucane e affini), Bari (impiccio D’Addario), Roma, dove nella missiva era accluso un chiodo di 5 centimetri per inchiodare appunto i suddetti colpevoli e Reggio Calabria, dove nel 2008 l’anonimo si firmò proprio così: “Il Corvo”, maiuscolo.
Ma proseguendo la disamina è irresistibile accennare al “corvo a luci rosse” del tribunale di Sondrio, o al “corvo reale” che svolazzava sulle beghe dei Savoia; e quindi al “corvo laziale” che se la prendeva con Eriksson e a un paio di corvi accademici (spese allegre alla Normale, concorsi imbrogliati a Potenza). Più un numero non calcolabile, ma certamente elevato di corvi radiotelevisivi operanti lungo l’asse che idealmente collega viale Mazzini a Saxa Rubra. In tale ambito, secondo una tipica formula delatoria, “i bene informati” segnalano l’assai stravagante, ma ragionevole fenomeno di corvi e contro-corvi in lotta.
Con il che sembra quasi che s’inverino le indimenticabili rime di un antico gioco poetico di Toti Scialoia: «Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte».


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