Dai CIE i racconti dei “sopravvissuti”

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Cécile Kyenge Kashetu, consigliera della Provincia di Modena e promotrice della rete Primo Marzo, si impegna per garantire un’assistenza legale gratuita e efficace ai migranti e più in generale affinché queste storie siano raccontate, anche perché “per chi è dentro testimoniare è un pericolo, spesso c’è un clima repressivo e nelle ultime visite non pochi detenuti avevano segni di percosse”.

Kashetu è fra gli ideatori della campagna “LasciateCIEntrare”, che dallo scorso aprile ha cercato di aprire a rappresentanti della società  civile, avvocati e giornalisti i 13 centri di detenzione per stranieri distribuiti sul territorio italiano, con lo scopo di raccontare questi luoghi e far pressione sulle istituzioni per un cambiamento radicale, per ottenere la “discontinuità  nelle pratiche rispetto al tema immigrazione”, come il deputato Jean-Léonard Touadi ha invocato in una recente interpellanza parlamentare. La detenzione amministrativa degli stranieri irregolari, ha ricordato sempre Touadi, deve essere, secondo le normative europee, solamente un’“ultima istanza” e deve obbedire a principi costituzionali e internazionali quali il divieto di trattamenti inumani e degradanti, il diritto a un giusto processo e al ricorso contro provvedimenti della pubblica amministrazione, il diritto alla salute e all’unità  familiare. Garantire questi diritti è essenziale per l’Italia per “rientrare negli standard internazionali e entrare all’interno dello spirito e della lettera della sua Costituzione”.

Fulvio Vassallo Paleologo, fra gli avvocati italiani che più si sono dedicati ai diritti dei trattenuti nei centri, ricorda come “parlare con chi ha vissuto nei CIE non è facile, perché dai CIE si viene rimpatriati o si fugge nella clandestinità , generalmente verso il nord o nelle campagne in Sicilia meridionale, Puglia, Calabria”. Rafael, cittadino tanzaniano di mezza età , ne è uscito come regolare e accetta di parlare. La permanenza nel CIE di Modena è ormai solo un brutto ricordo, ma non lo dimenticherà  facilmente. “Per motivi di salute – racconta – per un periodo non ho lavorato e questo mi ha impedito di rinnovare il permesso di soggiorno. Avevo certificati medici, una ricevuta della questura e avevo presentato la richiesta di rinnovo, ma mi hanno consegnato comunque un decreto di espulsione”.

Appena scaduti i 7 giorni previsti per lasciare il territorio Rafael lascia cadere per errore una bottiglia dal poggiolo di casa. Un auto in sosta viene danneggiata dalla bottiglia, interviene la polizia e Rafael viene portato al commissariato e poi al CIE. “I primi giorni ero terrorizzato, non capivo dov’ero. Il centro è una grande gabbia, le stanze sono celle di sicurezza in cui tutto è saldato alle pareti per evitare atti di autolesionismo, i bagni erano spesso rotti”. Non riporta atti di violenza “anche perché – dice – le reazioni della polizia mi spaventavano e così mi sono sempre tenuto lontano da qualsiasi protesta o lite”. Il clima nel centro è ad ogni modo di grande incertezza: “non mi capacitavo della situazione e come me molti altri, che non sapevano nemmeno perché erano lì. Alcuni ormai quasi italiani, con figli in Italia”. L’udienza presso il giudice di pace per la convalida del trattenimento è poi una “pura formalità , né il giudice né gli operatori del centro hanno ascoltato la mia vicenda”.

A salvarlo è il ricorso contro il decreto di espulsione, già  presentato tramite l’associazione Avvocati di Strada. Appena riceve la carta telefonica da 5 euro che gli spetta contatta l’avvocato, che riesce a dimostrate che Rafael era stato vittima di una serie di errori da parte delle questure e che c’erano tutti gli estremi per regolarizzare la sua presenza. Dopo un mese può uscire, con in mano un permesso per attesa occupazione e con in testa la sensazione spiacevole che “tutto questo fa parte del mondo di noi immigrati”.

La stessa sensazione di un operatore del CIE di Bologna, che preferisce rimanere anonimo. “Forse non potremmo chiudere i CIE – sottolinea – ma sicuramente dobbiamo migliorarne gli standard di vita”. L’esperienza di lavoro nella struttura gestita dall’ente religioso delle Misericordie, una delle più care d’Italia, gli fa guardare con sospetto al futuro: “se già  con un appalto di 69 euro al giorno per detenuto non era facile gestire tutti i servizi, figuriamoci con l’appalto da 28 euro che dovrebbe a breve diventare operativo”. “Il CIE di Bologna – continua – ha 25 operatori più il personale sanitario, medici e psicologi, e alcuni avvocati. Garantisce un servizio di supporto sociale e psicologico migliore di altri centri, ma i tagli costringeranno a eliminare molti servizi”. Sugli episodi di violenza, gli ultimi risalenti a poche settimane fa, non vuole esprimersi. Ma è evidente – dice – “la difficoltà  di gestire le persone tossicodipendenti e chi è uscito dal carcere e si trova a scontare senza motivo una nuova pena”. L’istituzione dei CIE “sembra ridursi – conclude un recentissimo rapporto di Medici per i Diritti Umani – da un lato alla mera dimensione sanzionatoria, alla necessità  della punizione, dall’altro alla segregazione di individui considerati indesiderati sociali”.

Fra questi risulta facile inserire i tunisini, fra le nazionalità  principali dei reclusi, in passato quasi mai accettati come richiedenti asilo in virtù dell’amicizia fra il nostro governo e la dittatura di Ben Ali. Fra questi Tareq, da un anno a Torino. Nel 2006 arriva a Lampedusa e da qui, appena identificato, riceve un decreto di espulsione. La sua fortuna è uno zio a Parigi, che arriva in macchina fino a Crotone per portarlo a lavorare con sé come capocantiere nell’edilizia. Lo zio non ha modo di regolarizzarlo e nel 2009 è rimpatriato, in seguito a un controllo della polizia. L’occasione per ripartire, con meta sempre la Francia, è la rivolta contro il regime. “Mi sono sempre tenuto lontano dai problemi – dice – e appena sono iniziati gli scontri sono scappato. Sono stato fra i primi a sbarcare a Lampedusa”.

Rispetto al 2006, le politiche sull’immigrazione sono però più restrittive, e Tareq è portato al CIE di corso Brunelleschi a Torino. “Non sapevo nulla, quanto sarei stato e perché ero lì. Ho capito che la vita lì dentro è dura e sono stato lontano dai problemi, dalle risse, da chi bruciava i materassi per scappare. Mangiavo, dormivo, fumavo”. Nell’aprile 2011 il governo decide di rilasciare un permesso temporaneo a tutte le persone arrivate dopo la rivoluzione tunisina, e Tareq può uscire. “Mi sento fortunato, oggi lavoro e sono libero. Ma continuo a chiedermi – sottolinea con rabbia mista a stupore – perché le persone stanno lì dentro per 6 mesi o più, soprattutto chi ha già  fatto anni di carcere. In Francia dopo 15 giorni mi hanno mandato a casa. Per forza poi le persone si fanno del male o cercano di scappare… meglio rimandarle a casa subito”.

“Così come in ogni città  c’è un carcere, la gente dovrà  abituarsi all’idea che ci sia un CPT [oggi CIE, ndr]”. Nel 2003 queste parole del capo dipartimento libertà  civili e immigrazione D’Ascenzo inauguravano la vicenda della detenzione amministrativa in Italia. Una vicenda che l’attuale governo, tramite il sottosegretario Ruperto, sembra intenzionato a proseguire, nonostante le pressioni nazionali e internazionali e nonostante lo spreco di risorse pubbliche, evidenziato fra gli altri da Sbilanciamoci. Fra le proposte emerse per investire in maniera migliore i 200 milioni di euro stanziati per il “sistema CIE” nell’ultima finanziaria, Anna Lodeserto di European Alternatives segnala “programmi di integrazione reale, come corsi di lingua, sostegno alle seconde generazioni, accordi per il riconoscimento dei titoli di studio e programmi di rimpatrio volontario assistito e reintegrazione migliori degli attuali”. Idee discusse il 26 maggio aFirenze, all’interno della fiera Città  Futura, nella speranza di un reale cambiamento di rotta.


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