Delle Chiaie: “Ci proposero di rapire moro nel 1964”

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Una sera di luglio del 1964 Stefano Delle Chiaie, esponente di punta dell’estremismo neofascista, incontra Peppe Coltellacci nel suo appartamento all’Eur. L’ex repubblichino lo aspetta in compagnia di uno sconosciuto. «Bisogna sequestrare Aldo Moro per impedirgli di andare in Parlamento a presentare il nuovo governo», propone Coltellacci al capo indiscusso di Avanguardia nazionale. Il rifiuto fu il silenzio. «Io e i miei accompagnatori ci alzammo all’istante, salutammo freddamente e ce ne andammo», così almeno sostiene Stefano Delle Chiaie. Pochi giorni dopo, Aldo Moro insediò il suo secondo governo e colpisce la coincidenza con quanto, a seguito dello scandalo Sifar del ’67, emerse sul Piano Solo e sul golpe progettato tre anni prima dal generale Giovanni De Lorenzo.
Non andò in porto soltanto per un soffio, invece, un altro colpo di Stato, quello ordito dal principe Valerio Borghese nel dicembre 1970, fallito in extremis per l’atteggiamento ambiguo delle alte cariche militari coinvolte, che si tirarono indietro all’ultimo momento, stando al racconto di Delle Chiaie, amico e sostenitore di Borghese. Anni dopo “il Caccola” (così veniva chiamato Delle Chiaie, n.d.r.), lanciato a livello internazionale, collaborò con Augusto Pinochet e per lui elaborò una “dottrina” della dittatura militare, per trasformare il colpo di Stato cileno in una tappa del processo politico “rivoluzionario” globale. 
Tutto questo Delle Chiaie lo racconta nella sua autobiografia pubblicata da Sperling & Kupfer, L’Aquila e il condor. Memorie di un militante politico, libro dalla faticosa gestazione, ottimamente curato da Massimiliano Griner e Umberto Berlenghini, ma che, mentre si dilunga su una versione dei fatti e misfatti dell’epoca, ben poco aggiunge alla verità  storica su mezzo secolo di misteri d’Italia, su un rocambolesco curriculum di ricercato speciale e sul coinvolgimento dei “cuori neri” chiamati in causa dalle vicende giudiziarie per stragi e complotti. Un compendio di memorie, in gran parte già  esternate nelle sedi processuali e dinanzi alle Commissioni parlamentari, che resta comunque un documento assai intenso per quanti siano interessati a conoscere quel magma da guerra fredda che nel nostro paese rese tutto possibile pur di fermare il fantasma dell’avanzata comunista, nonché gli ambienti e le convinzioni in cui si dipanò quel tempo esplosivo, popolato da servizi segreti deviati, infiltrati, provocatori e intrecci mai chiariti. 
Delle Chiaie, decenni trascorsi da latitante nella Spagna franchista, in Portogallo, in America latina o chissà  dove, non ha più pendenze giudiziarie, essendo stato assolto o prosciolto da tempo da tutte le imputazioni, ricorda il suo avvocato Giuseppe Pisauro, comprese quelle relative all’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, alla strage di Piazza Fontana e all’eccidio di Bologna. Nello scrivere la sua autobiografia, da uomo libero avrebbe dunque potuto fare almeno un po’ di chiarezza sulla madre di tutte le accuse a lui rivolte e poi dissolte, la bomba del 12 dicembre ’69. E invece niente. Riferisce nella postfazione Luca Telese che, durante il primo incontro con Delle Chiaie, “il Caccola” gli confidò «che i tempi gli sembravano maturi per ammettere che nella strage del’69, aveva visto la mano degli ordinovisti veneti» (ormai assolti). Affermazione che, pur senza chiamate di correo, avrebbe fatto sperare in una verità  sostanziale che nel libro risulta invece «diluita, annegata e scomparsa in un diluvio di documenti , citazioni, fatti». 
Mancata l’opportunità , Delle Chiaie ripiega sui dettagli e soddisfa qualche curiosità . Racconta perché venne chiamato “Caccola”, un soprannome guadagnato senza dispiacersi nel 1950, quando iniziò, mingherlino e appena quattordicenne, la militanza nella sezione del Msi del suo quartiere. E ancora, il via vai dentro e fuori dal carcere (la prima volta venne arrestato nel ’55 per aver sottratto una bandiera a un corteo di partigiani), il tentativo, fallito, di alleanza con frange dell’estremismo rosso nel ’68, i dissensi con il Msi, la nascita e le opere di Avanguardia nazionale e degli altri gruppi del neofascismo estremista dell’epoca. Infine lui, sempre in odore di rapporti con i servizi segreti, fornisce la sua ricostruzione degli incontri con molti dei protagonisti di quella stagione: Guido Giannettini, (l’agente G), Yves Guérin Sérac direttore della misteriosa agenzia portoghese Aginter Press, il capitano del Sid Antonio Labruna. Ma poco o nulla risulta utile per svelare quel filo oscuro che lega i tanti misteri italiani le cui vittime, nella maggior parte dei casi, sono rimaste senza giustizia.


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