QUANDO IL DISAGIO SCENDE IN CAMPO

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Hostium rabies diruit, la bestiale violenza del nemico ha distrutto. Così si intitolava una serie di francobolli emessi dalla Repubblica Sociale Italiana, per commemorare la rovina di Montecassino, di san Lorenzo, di santa Maria delle Grazie, e di altri monumenti italiani bombardati dagli alleati. In questo caso, “rabbia” ha a che fare con la bestialità  e col furore degli “altri”, dei barbari, con la loro cieca violenza. La rabbia come l’opposto della civiltà , dunque; come ferinità  anti-umana; e si deve supporre, che data la sua inferiorità , sarà  la rabbia a essere sconfitta. Il che com’è noto non avvenne: non basta definire “rabbiosa” la potenza contro cui combattiamo per poterla vincere – a parte il fatto che solo la propaganda del fascismo repubblicano poteva fingere di ignorare che le responsabilità  della guerra, e delle distruzioni, era dei nazisti prima che degli angloamericani; che cioè la rabbia era assai più interna che esterna, che era appunto quella che a suo tempo Petrarca aveva chiamato “tedesca rabbia” –.
Ma oltre alla rabbia degli altri, esterna – che a ben guardare è anche interna –, c’è anche una rabbia che nasce e si forma nel cuore della civiltà . Ad esempio, quella dei “giovani arrabbiati” inglesi della metà  degli anni Cinquanta, che trova il suo manifesto in Ricorda con rabbia, la pièce teatrale scritta nel 1956 da John Osborne. E qui la rabbia è un sentimento di frustrazione e di esclusione, di inutilità  e di angoscia; è un rancore che apre a un realismo crudele. Una rabbia che, forse, fa capire qualcosa di sé e del mondo, ma al prezzo del più atroce disincanto.
Ma c’è anche – e soprattutto – una rabbia improduttiva, un risentimento che a lungo consuma internamente l’anima, e che poi esplode in furibonda violenza; la rabbia dei vinti che si ribellano alla sconfitta – ritenuta immeritata – con gesti convulsi, compulsivi, fuori controllo, distruttivi e autodistruttivi; una rabbia impotente, che fa perdere l’umana dignità  – che fa andare fuori si sé – senza dare la vittoria. È la rabbia di Capaneo – il re che tentò di conquistare Tebe, e che venne fulminato da Zeus –, che Dante punisce, nell’Inferno, proprio attribuendogli un’eterna rabbia contro Dio.
In diverse dosi e percentuali, la rabbia ha in sé la dismisura, l’estremismo, l’inefficacia. Anche se è la reazione comprensibile a un’ingiustizia patita – e posto, quindi, che non sia una manifestazione di comoda cecità  davanti alla proprie responsabilità  – la rabbia ha un che di autolesionistico; anche se il soggetto che ne è portatore la rivolge all’esterno, per affermare se stesso, in realtà  la rabbia colpisce anche chi la prova, manifestandone l’impotenza. Quando la rabbia assume un volto politico è, di fatto, la rivolta da fame, la jacquerie; esplosione di efferata violenza, senza visione e senza prospettive, che in breve implode su se stessa e si consegna alle atroci punizioni del potere. Oppure è la protesta, la pura espressione di un disagio che si sfoga nel semplice manifestarsi, e che quindi è tanto fragoroso quanto inerte. Nata con potenzialità  politiche, la rabbia termina nell’impolitica, nell’inefficacia. È un’energia che si spegne subito in entropia.
La rabbia è quindi diversa dall’ira. Per quanto anche questa sia una passione violenta, e a volte si rivolga contro se stessa, per quanto smisurata possa essere, l’ira non è solo degli iracondi ma è anche degli eroi, dei magnanimi, dei santi, di Cristo contro i mercanti, di Dio nel Giorno del Giudizio, il Dies Irae. Se la rabbia è un’ira che implode, una pretesa di autoaffermazione che è in realtà  passiva, l’ira può essere segno anche di sicurezza: si può essere irati rimanendo in sé. Se la rabbia ha torto, anche quando ha qualche ragione, perché è sempre distorta e contorta, l’ira può essere giusta e retta, cioè non solo giustificata nelle cause ma anche indirizzata a un fine adeguato, con un’azione efficace; se l’ira è terribile, la rabbia è sgradevole (esiste l’ira di Dio, non la rabbia di Dio); se la rabbia è la rivolta autodistruttiva, l’ira è la rivoluzione creatrice di un nuovo ordine – o il riformismo rapido, incisivo, operoso –.
Si potrebbe dire che uno dei principali problemi politici in Europa e in Italia, oggi, è decifrare il disagio sociale e civile, nelle sue varie e imponenti manifestazioni, e operare non tanto per spegnere l’energia della rabbia quanto per risparmiarle l’esito impolitico. Per incivilire operosamente il barbaro. Per rovesciare la frustrazione in speranza. Per far sì che chi è fuori di sé rientri in sé, e si metta – anche con la giusta ira – a fare politica.


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