Record in Fiera

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Saranno i ragazzi a salvare il mondo dei libri. Il Salone torinese si chiude con più visitatori (fra il 4 e il 5%) ed è in gran parte merito loro. «Vorrà  dire che non siamo ancora alla canna del gas», scherza l’editore Carmine Donzelli. L’onda studentesca che travolge il Lingotto racconta un altro Salone. Lo tsunami di ragazzi sparpagliati tra gli stand dei libri e i dibattiti-show descrive un Salone in controtendenza rispetto alla crisi. Un Salone che non è né depresso né digitale – largamente disertate le sezioni elettroniche -, zeppo di lettori acquirenti che fanno esultare gli editori, zampillante di zainetti e visitatori in erba. Ancora più degli anni passati, quando nei primi giorni della fiera venivano deportate intere scolaresche in attesa del “tutti a casa” della campanella. Nell’anno della “tempesta perfetta” – come è stata ribattezzata la grande crisi – il Salone vende libri e i giovani preferiscono restare. Curiosi ed esigenti, informati (dalla rete) e desiderosi di un rapporto tattile con i volumi, attenti al prezzo ma anche alle novità  editoriali, ipnotizzati dall’intrattenimento ma anche dagli incontri “civili”. E per lo più indifferenti agli schermi luminosi degli e-reader.
«Lettori consapevoli, che stanno sulla palla», li definisce Gianfranco Carofiglio, scrittore e magistrato abituato alle grandi folle. «Vengono all’appuntamento preparati, sanno di cosa parlano». «Per la prima volta in tanti anni», racconta Giuseppe Laterza, «nessuno mi ha domandato se vendiamo anche romanzi», richiesta sorprendente per una casa editrice che da sempre pubblica solo saggistica. Per Tullio De Mauro, artefice di una lezione sulla lingua italiana, non c’è da sorprendersi: i giovani leggono, e leggono molto di più dei loro padri e nonni diffusamente analfabeti.
Invadono gli stand, pescano i libri e li toccano “con una manualità  nuova e diversa, propria del lettore multimediale”, rileva Carmine Donzelli. Sono più scaltri e indipendenti dei fratelli maggiori. Andrea Bajani, che da due anni cura la sezione Bookstock dedicata ai ragazzi, completa la “fenomenologia del neovisitatore”. «Esaurito l’incontro, prima scappavano a casa, ora sciamano nel Salone in totale autonomia». Forse anche attratti dalla musica, dai video, dagli effetti speciali, insomma dal profilo multiforme della fiera. Non però dagli schermi luminosi dei kindle o degli e-reader, gli stand più snobbati. «Li disertano perché i supporti elettronici fanno parte del loro habitat naturale», prosegue Bajani, «mentre il vero oggetto esotico è diventato il libro». Un libro da scoprire, toccare e annusare, come racconta un gruppetto di studenti liceali che alla parola “e-book” fanno la faccia da prugna secca. «Trionfo del virtuale? Requiem per il libro di carta?», gioca Fernando Savater che al tema ha dedicato un incontro. «È come la fine del mondo: se ne parla da secoli, ma siamo ancora tutti qua».
Gli editori si dicono molto soddisfatti per le vendite. I marchi medi e piccoli, dal Mulino a Sellerio, confermano una tenuta rispetto alla passata edizione. I grandi gruppi, da Mondadori a Rcs, da Gems a Feltrinelli, dichiarano un incremento dal 10 al 20 per cento. Calcoli generosi dettati da una sorta di ebbrezza nella stagione della grande paura? In attesa di bilanci definitivi, va comunque registrato il segno più. «È la dimostrazione che le cose possono funzionare bene se i libri vengono proposti con intelligenza e nella ricchezza del catalogo», interviene un libraio esperto come Romano Montroni. Il vero trionfatore è Newton Compton, uno sciame di ragazzi intorno ai titoli a quattro euro e novanta. La chiave del successo sta nella politica dei costi contenuti, con i classici al prezzo di un gelato. Il genere più richiesto è il romanzo rosa, ma vanno molto anche il giallo storico e i capolavori della letteratura.
Curiosa è l’alchimia dei libri più venduti, che investe anche gli altri marchi. I bestseller del Salone sono molto televisivi o spettacolari, da Dandini a Gramellini, da Ligabue a Del Piero, da Faletti al fantasy cruento di Hunger Games. Ma c’è grande richiesta anche per i saggi sul lavoro (settanta copie di Luciano Gallino vendute in mezz’ora) o sulla libertà  (Corrado Augias), sulla democrazia (Giuseppe D’Avanzo) o sul tabù della morte (Conchita De Gregorio). Così anche le code lunghe si dipanano tra lo “show della fama” (definizione suggerita dal feltrinelliano Alberto Rollo) e convegni sulla mafia, tra entertainment e impegno civile, tra Fabio Volo e la trojka Travaglio-Barbacetto-Gomez, con sale gremite per autentiche star della cultura quali Enzensberger e Magris. E la standing ovation di milleduecento persone alla memoria di Falcone e Borsellino rimarrà  l’applauso più fragoroso nella storia della Fiera torinese. «Una cosa così non la ricordo», commenta Ernesto Ferrero, da quattordici anni principe del Lingotto, «forse solo per la figlia di Che Guevara. Ma gli spettatori applaudivano se stessi e i propri sogni infranti». Altra fiera, altra età . Anagrafica e storica. 
L’anagrafe scende, la folla sale. «Si vede a occhio nudo il desiderio di democrazia partecipata e non delegata», commenta Ferrero. «Gli eventi più affollati sono quelli che riguardano i passaggi più delicati della vita civile. Come se, di fronte all’impotenza dei partiti tradizionali, i ragazzi ma non solo i ragazzi fossero alla ricerca di canali alternativi». Una condivisione quasi “ecclesiale” – aggiunge Ferrero – che caratterizza la città  del libro. Nessun ripensamento a proposito dell’enfasi posta sul digitale, terra promessa ben lungi dall’essere realizzata? «In rete la confusione è massima», dice Ferrero. «E io non mi sogno di stare su Twitter. “Scrivo dieci pagine perché non ho tempo di scriverne meno”: è una massima di Mark Twain in cui mi riconosco. Ma è in atto una rottura epocale, più forte di quella segnata da Gutenberg. E non potevamo certo ignorarla. È stata una “primavera digitale” con molte nubi? La stagione, si sa, non è priva di turbolenze».


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