Se Facebook va in Borsa con la storia delle nostre vite

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NEW YORK — Arriva il «giorno x» per la quotazione di Facebook: stasera, a tarda ora, la fissazione del prezzo (probabilmente vicino ai massimi della nuova «forchetta» alzata da 28-35 a 34-38 dollari, sull’onda di una domanda che pare sia di molte volte superiore all’offerta di titoli). Poi, domani, l’inizio delle contrattazioni al Nasdaq, la Borsa tecnologica di New York.
Sarà  un successo perché Facebook in questo momento è l’azienda più popolare del mondo e molta gente è pronta a scommettere sul «social network» proprio perché, visto che riempie la sua vita, ritiene che non possa non avere un elevato valore intrinseco. Gli altri giganti dell’economia digitale hanno tentato fino all’ultimo di tagliarle la strada tirando fuori novità  a raffica per mettere un po’ in ombra quello che comunque sarà  l’Ipo tecnologica più ricca di tutti i tempi. La settimana scorsa Google ha annunciato una nuova versione della piattaforma Google+, il suo «social network», per l’iPhone. Poi è toccato a Microsoft presentare una versione aggiornata del suo motore, Bing. E ieri è toccato di nuovo a Google annunciare il lancio immediato di Knowledge Graph, il più importante aggiornamento del suo motore di ricerca da quando, nel 2007, fu introdotta la versione «Universal Search».
Il nuovo strumento amplia le capacità  di ricerca del motore offrendo nuove opzioni quando si digita, ad esempio, il nome di un architetto o di un pittore. Ci sentiremo chiedere se ci interessano i loro progetti, le loro opere, i rapporti con altri artisti, la storia del loro movimento culturale. Nuove associazioni rese possibili dall’integrazione nel motore Google di altre banche dati come Wikipedia e perfino il World Fact Book della CIA, l’agenzia Usa di «intelligence», che offrono 500 milioni di nuove combinazioni di personaggi, luoghi e fatti. Una novità  importante per gli utenti, ma è in cantiere da due anni e gli esperti ne attendevano da tempo il lancio. Che arriva, a poche ore dall’Ipo Facebook. 
Che, come detto, agita gli investitori: mentre quelli professionali, pur vedendo la possibilità  di un rapido guadagno, restano alla finestra o progettano un «mordi e fuggi» (il 71% degli operatori, secondo un’indagine indipendente, non pensa a Facebook come a un investimento di lungo termine), nel pubblico non specializzato fioriscono gli entusiasti. Molti dei quali, racconta il «Wall Street Journal», sono ponti a investire nella società  di Mark Zuckerberg i soldi accantonati per il «college» del figlio (e ormai insufficienti), semplicemente perché trovano naturale scommettere sullo strumento del quale questi ragazzi si servono in continuazione.
Raramente ci si interroga su come possa fare a remunerare un capitale di oltre 100 miliardi una società  che l’anno scorso ha registrato un fatturato di 3,7 miliardi di dollari e un miliardo di profitti e che nella prima parte di quest’anno ha addirittura denunciato un calo tanto degli utili quanto del giro d’affari. Momentanea coincidenza di fattori negativi, sostiene Facebook. L’idea di fondo è che un’impresa che è entrata nella vita di oltre 900 milioni di persone prima o poi troverà  il modo di monetizzare questa posizione.
Un ragionamento non molto diverso, del resto, fu fatto nel 2004 quando ad andare sul mercato fu Google. Anche la società  di Page e Brin allora registrava incassi pubblicitari crescenti ma ancora magri. Google, però, disponeva del motore di ricerca di gran lunga migliore, usato dalla grande maggioranza degli utenti di Internet. Nel lungo periodo quella scommessa ha funzionato, anche se all’inizio l’attesa esplosione del titolo non ci fu: qualche settimana dopo la quotazione si poteva ancora comprare l’azione Google al prezzo d’emissione.
Ma Google vendeva una tecnologia, un sistema di ricerca, un algoritmo. Facebook vende un sistema di socializzazione e un modo di accedere ai dati privati di tutti noi, nella speranza che imprese e inserzionisti pubblicitari attribuiscano un elevato valore a questa montagna di informazioni personali. I critici più polemici sostegno che i «fan» dell’investimento delle reti sociali versano soldi a una società  che si sta arricchendo frugando nei loro stessi cassetti per acquisire informazioni da rivendere alle imprese che vogliono costruire profili sempre più precisi dei consumatori.
E non è nemmeno detto che tanta spregiudicatezza paghi: ieri la General Motors ha annunciato che non farà  più pubblicità  su Facebook: la considera poco efficace, anche se le dichiarazioni ufficiali sono più diplomatiche.
Quello che colpisce di più, però, è che, mentre il pubblico si affolla per conquistare titoli Facebook, diversi dei grandi investitori che hanno comprato in passato pezzi della società  a trattativa privata, ora rivendono le loro quote in misura superiore a quanto stabilito finora: la banca Goldman Sachs rivenderà  la metà  del suo pacchetto (23% del capitale), mentre il «tycoon» russo Yuri Milner mette sul mercato il 40 per cento delle sue azioni: incasserà  più di 2 miliardi di dollari.


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