Dal transistor alla nanomacchina

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La formula magica esiste, la Fabbrica delle Idee ha avuto un nome e un indirizzo: chi volesse provare ad emularla, deve partire da quel modello.
Si tratta dei laboratori di ricerca della compagnia telefonica AT&T, i Bell Labs. La loro avventura ha inizio nel 1909 quando l’AT&T decide di
costruire la prima linea telefonica intercontinentale per collegare New York a San Francisco. Occorrono dei prodigi di ingegneria, ma anche dei progressi sul piano della scienza pura: degli amplificatori del segnale elettrico che gli impediscano di indebolirsi dopo pochi chilometri. È così che AT&T si convince a costituire un’organizzazione di ricerca interdisciplinare, riunendovi dei fisici teorici, degli esperti di materiali, degli ingegneri, e infine i propri tecnici del telefono. È l’inizio di un esperimento che darà  agli Stati Uniti un ruolo leader per un secolo. Lo racconta Jon Gertner nel saggio
The Idea Factory. Bell Labs and the Great Age of American Innovation.
Un’altra grande firma del giornalismo tecnologico americano, Walter Isaacson (celebre nel mondo per la sua biografia di Steve Jobs) riassume così la lezione dei Bell Labs: «Queste innovazioni avvengono quando persone con diversi talenti, diverse conoscenze, diverse mentalità , vengono riunite insieme possibilmente in una vicinanza fisica, in modo da potersi
incontrare spesso».
I Bell Labs prendono forma in modo definitivo, a partire dal 1925, nella loro prima sede sulla West Street a Manhattan. Tra i gruppi di ricerca che si formano lì dentro, uno si occupa degli studi sulla conduttività  dei diversi materiali in base alle rispettive strutture atomiche. Così nasce il primo transistor, nel 1947, tassello di base per un’ondata di applicazioni che segneranno l’era della televisione, poi attraverso il salto nei semiconduttori quella del computer. Da quel momento i Bell Labs collezionano una serie impressionante di invenzioni nei settori più disparati: la prima cella solare al silicio da cui verranno tutti i dispositivi per generare energia solare; il primo brevetto del laser; il primo satellite per telecomunicazioni; il primo sistema di telefonia cellulare; i primi cavi a fibre ottiche. Perfino i linguaggi elementari dei software per computer, Unix e C, nascono in quei laboratori. Non mancano gli incidenti di percorso, come lo scandalo che ha travolto il ricercatore Hendrik Schoen,
smascherato alla fine degli anni Novanta per aver falsificato dei dati sui transistor di dimensione molecolare. Ma nell’insieme il bilancio è impressionante, e si riassume nell’elenco dei premi Nobel vinti da scienziati che lavorarono nei Bell Labs: nel 1937 il riconoscimento va a Clinton Davisson per aver dimostrato che la materia «ha la natura di onde»; nel 1956 il Nobel premia i tre inventori del transistor William Shockley, John Bardeen e Walter Brattain; nel 1977 e 1978 tocca a Philip Anderson (struttura elettronica del vetro e dei materiali magnetici) e ad Arno Penzias con Robert Wilson (radiazioni cosmiche a micro-onde). L’attuale ministro dell’Energia di Obama, Steven Chu, vinse il Nobel nel 1997 per le sue ricerche ai Bell Labs sui metodi per “catturare atomi” con i raggi laser. L’anno successivo tre suoi colleghi lo vinsero nel campo della fisica quantistica.
Ma torniamo alla domanda iniziale, quella che interessa il nostro futuro: la ricetta? L’uomo- chiave per capire il successo dei Bell Labs
durante mezzo secolo, è il fisico Mervin Kelly della University of Chicago, che dal 1925 al 1959 è presidente del centro di ricerca e vi imprime la sua concezione. Kelly è convinto che un «centro di creatività  tecnologica» ha bisogno di una «massa critica» di persone di talento, «costrette» a interagire fra loro. È lui che impone la prossimità  fisica: parlarsi al telefono non può bastare. Inventa una forma di «promiscuità  dei saperi» senza precedenti: vuole che gli scienziati fisici incontrino gli ingegneri; che i teorici si confrontino con i tecnici della produzione. La stessa architettura degli uffici è pensata in funzione di ciò, con lunghi corridoi stretti dove è inevitabile transitare e impossibile non incontrarsi. Anche gli operai devono essere nelle vicinanze, perché alla fine saranno loro a dover trasformare le idee in oggetti. Secondo la battuta di Gertner, i Bell Labs «sono una torre d’avorio, con una fabbrica al pianterreno». Le officine sono incollate ai laboratori. È un modello che aveva ben presente Steve Jobs. Prima della scomparsa, il
fondatore di Apple nel corso delle sue interviste finali con Isaacson aveva spiegato che «la cosa più difficile non è creare un prodotto innovativo, ma mettere in piedi una grande organizzazione che possa partorire continuamente dei prodotti innovativi». Jobs aveva a modo suo replicato il modello dei Bell Labs unendo «dei geni creativi insieme con degli esperti di prodotto e dei grandi ingegneri, in modo da collegare fra loro la tecnologia e l’immaginazione».
Ma c’è qualcosa di più, che fa la grandezza dei Bell Labs e li distingue da tanti emuli successivi incluso lo stesso Jobs. Le squadre che inventarono il transistor, il laser e le celle solari non avevano il profitto come obiettivo. Erano spesso scienziati spinti dalla passione del sapere e della conoscenza, anche se in seguito le loro scoperte vennero sfruttate da altri e diedero la nascita ad interi settori industriali che prima non esistevano neppure. Il modello dei Bell Labs è una straordinaria conferma dell’importanza della ricerca pura. «Se un’idea partorisce una
scoperta — spiega Gertner — e dalla scoperta nasce l’invenzione, l’innovazione è quella lunga trasformazione che parte dall’idea originaria e arriva ad un prodotto con utilizzazioni di massa. Per definizione non può esserci una singola persona, neanche un singolo gruppo, dietro l’intera innovazione». Un’altra lezione dei Bell Labs riguarda il modello di capitalismo. AT&T godette per molti decenni di un monopolio nel servizio telefonico. Ma poiché questo privilegio le era accordato dalla discrezionalità  dello Stato, era parte di un patto implicito: AT&T doveva restituire alla collettività  dei benefici. Le invenzioni dei Bell Labs dovevano essere a disposizione di altri, le applicazioni dovevano essere aperte su licenza. I progressi scientifici dei Bell Labs erano considerati «di interesse pubblico» e così li amministrava la sua proprietaria teorica. Senza quest’idea dell’interesse pubblico l’America non avrebbe avuto un capitalismo capace di dare vita alla rivoluzione elettronica, poi a quella informatica e digitale. Oggi, non solo è
difficile scorgere all’orizzonte una singola nazione in grado di replicare questa formula con lo stesso successo degli Stati Uniti, ma perfino la Silicon Valley nelle gesta più recenti di Apple, Facebook e Google sembra aver imboccato una strada molto più “proprietaria” rispetto al vecchio e deprecato monopolista AT&T. Del resto la stessa storia dei Bell Labs dimostra che la Fabbrica delle Idee si può anche distruggere. È quel che è accaduto da quando Alcatel-Lucent è subentrata all’AT&T nella proprietà  di questo centro di ricerca. I nuovi padroni hanno deciso di ritirarsi dalla ricerca pura per focalizzare i Bell Labs solo su «aree che hanno applicazioni di mercato». Un caso di «miopia che ridimensiona il potenziale d’innovazione», secondo il duro giudizio della rivista specializzata
Wired.
Che cita il precedente del Global Positioning System o Gps: non sarebbe nato senza l’orologio atomico, a sua volta un “sottoprodotto” della ricerca nella fisica pura.


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