La costellazione dei mondi migranti

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Sin dalla sua prima edizione, pubblicata nel 1993, The Age of Migration si è rapidamente imposto come un testo di riferimento per le diverse «comunità  epistemiche» che si occupano oggi di migrazioni a livello globale: è diventato una sorta di wikipedia cartacea (a cui ora si aggiunge un sito internet) per operatori dell’informazione e policy makers, ricercatori, funzionari di organizzazioni internazionali e Organizzazioni non governative. Di edizione in edizione (quella che qui si parla è la quarta, tradotta con il titolo L’era delle migrazioni, Odoya edizioni, pp. 400, euro 24), il libro di Stephen Castles e Mark J. Miller ha proposto una cartografia in continuo aggiornamento delle migrazioni contemporanee, dei più rilevanti problemi che pongono nonché del mutamento di indirizzo dei dibattiti pubblici e scientifici che le accompagnano. Fin da principio, infatti, l’ambizioso obiettivo dei due autori è consistito nel combinare questi diversi piani, nel non limitarsi a proporre un semplice «atlante delle migrazioni globali», ma nell’intrecciare dati, mappe e grafici con la discussione dei mutamenti di paradigma teorico intervenuti in questi anni nella ricerca sulle migrazioni e con un costante monitoraggio degli orientamenti dei governi, delle «opinioni pubbliche» e delle principali agenzie globali che intervengono sul tema. Costruito sulla base di una solida esperienza di ricerca di entrambi gli autori, che affonda le proprie radici in una serie di studi sulle migrazioni operaie in Europa occidentale nel secondo dopoguerra1, questo volume unisce il pregio di una scrittura chiara e accessibile alla capacità  di restituire nei loro termini essenziali dibattiti e sviluppi teorici spesso di notevole complessità . Chiunque voglia farsi un’idea dello «stato dell’arte» relativamente alle migrazioni globali contemporanee troverà  insomma in questo libro le basi essenziali da cui partire.
Tra espulsione e attrazione
L’era delle migrazioni, tuttavia, è anche qualcosa di più. Le migrazioni sono qui intese e analizzate secondo una prospettiva che le pone al centro dei processi di globalizzazione. In questione è prima di tutto la formazione di un nuovo sguardo teorico sui movimenti migratori, emerso dalle critiche che sono state rivolte negli ultimi decenni all’approccio «neo-classico», che ha a lungo considerato la migrazione come una sorta di effetto «automatico» dell’azione di «fattori di espulsione» (push) e di «fattori di attrazione» (pull). Da queste critiche, che hanno posto in evidenza il ruolo delle reti familiari e comunitari nel determinare la migrazione, la densità  storica dei «sistemi migratori» e gli elementi di «autonomia» che caratterizzano l’esperienza migratoria, Castles e Miller giungono a definire la migrazione come una forma di «azione collettiva», al tempo stesso espressione e causa di profonde trasformazioni sociali tanto nei Paesi di provenienza quanto nei Paesi in cui i migranti si stabiliscono (temporaneamente o permanentemente). È in questo senso che va intesa la centralità  dei movimenti migratori all’interno dei processi di globalizzazione: per quanto i migranti subiscano spesso forme particolarmente violente di «spoliazione» di diritti, discriminazione e sfruttamento (se ne troveranno molti esempi nelle pagine del volume), la migrazione è considerata in questo libro come una delle forze essenziali che stanno attivamente ridisegnando il paesaggio sociale, politico, economico e culturale del mondo contemporaneo. Combinando questi due punti di vista, la migrazione diviene nell’analisi di Castles e Miller un vero e proprio «fatto sociale totale», che consente di leggere in filigrana le tendenze più generali della globalizzazione, di cui questo libro è un eccellente sismografo.
Dall’Ottocento ai nostri giorni
Qualche parola va spesa sul titolo del libro, The Age of Migration. In che senso la nostra può essere definita «l’età  della migrazione»? Senza risalire oltre nel tempo, la mobilità  (tanto coatta quanto «libera») non è uno dei caratteri che definiscono la modernità  capitalistica? E più specificamente, secondo un’argomentazione insistentemente proposta dagli storici: non c’è almeno un’«età » altrettanto segnata dalle migrazioni quanto quella contemporanea, ovvero i decenni della grande migrazione transatlantica tra Otto e Novecento? Non v’è dubbio che si tratti di domande pertinenti, e la grande vivacità  degli studi storiografici sulle migrazioni negli ultimi anni aiuta a impostarle nel modo più produttivo e a guadagnare utili termini di comparazione per l’analisi delle migrazioni contemporanee. Castles e Miller, ovviamente consapevoli del rilievo di queste questioni, sono tuttavia convinti che a prevalere siano oggi gli elementi di novità  rispetto al passato. Vale la pena di anticipare le ragioni di questa convinzione. È in primo luogo la geografia delle migrazioni a essere mutata, sia per la complicazione e la sovrapposizione delle rotte seguite dai migranti sia – e soprattutto – per il fatto che, a partire dalla decolonizzazione e poi in modo più marcato dagli anni Ottanta del Novecento, le migrazioni interessano l’intero pianeta, sono cioè un fenomeno per eccellenza «globale». Un numero crescente di regioni e Paesi sta poi vivendo una fase di prolungata «transizione migratoria», presentandosi cioè sia come aree di emigrazione sia come aree di immigrazione e contribuendo a complicare le «mappe» migratorie. In secondo luogo, all’accelerazione dei movimenti migratori si accompagnano una tendenza alla diversificazione dei modelli e degli status (immigrazione temporanea o insediamento permanente, migrazione per lavoro o ricerca d’asilo) e una profonda trasformazione della loro composizione: decisiva, da quest’ultimo punto di vista, è la progressiva «femminilizzazione» delle migrazioni, il crescente protagonismo delle donne al loro interno, con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo della trasformazione dei rapporti tra i generi. In terzo luogo, infine, Castles e Miller parlano di una «maggiore politicizzazione», di una crescita senza precedenti del rilievo politico delle migrazioni, tanto su scala interna quanto su scala globale.
Dentro i confini nazionali
Sulla «novità » di ognuno di questi elementi sono ovviamente possibili obiezioni. Si potrebbe ad esempio notare, sulla traccia dei lavori di studiose femministe e postcoloniali, che l’autonoma mobilità  delle donne non è un fatto recente e che migrazioni di grande importanza (ancora una volta: coatte e «libere») hanno accompagnato l’intero arco storico dell’espansione coloniale europea al di fuori del cosiddetto Occidente. Il problema sarebbe dunque in primo luogo lo «sguardo» – maschile e bianco – della scienza della migrazione, cieco di fronte a queste realtà . Pur assunta la correttezza e la rilevanza di queste osservazioni, a me pare tuttavia che, considerati nel loro insieme, gli elementi di «novità » segnalati da Castles e Miller giustifichino pienamente la scelta del titolo di questo libro. Ancora una volta, del resto, la migrazione caratterizza a loro giudizio l’«età » in cui viviamo perché è un’esperienza che non riguarda soltanto gli uomini e le donne che migrano. Un’altra obiezione che viene spesso mossa a quanti insistono sul rilievo della migrazione nel mondo contemporaneo è quella di «sovrastimare» un fenomeno tutto sommato statisticamente limitato, considerato che riguarderebbe non più del 3% della popolazione mondiale. In questione, qui, non sono soltanto i limiti delle statistiche che riguardano le migrazioni (a quanto osservano a questo proposito Castles e Miller in un’apposita nota preliminare si potrebbe ad esempio aggiungere che le «migrazioni interne» in Cina, un fenomeno gigantesco che sta cambiando la struttura demografica, sociale e culturale del Paese, coinvolgono secondo i dati del governo 150 milioni di donne e uomini, non censiti nelle statistiche sulle migrazioni «internazionali»). 
Le rimesse dei cervelli 
Il punto è, più in profondità , quello già  ricordato: essendo una forma di «azione collettiva» e una forza di trasformazione sociale, la migrazione è un movimento che, lungi dal coinvolgere soltanto gli individui che migrano, agisce sulla società  nel suo complesso, crea nuovi spazi sociali e culturali, ostacola attraverso il brain drain lo «sviluppo» dei Paesi di provenienza dei migranti oppure lo facilita attraverso le rimesse, modifica la composizione del lavoro nei Paesi di insediamento rendendo possibile l’affinamento di nuovi dispositivi di sfruttamento ma anche dando nuova linfa ai movimenti di rivolta contro di essi, agevola la diffusione di fondamentalismi più o meno «inventati» ma è anche all’origine di nuove pratiche di «ibridazione» culturale, crea nuovi canali «transnazionali» in cui circolano corpi in ceppi ma anche desideri potenti di libertà  e uguaglianza.Su ciascuno di questi aspetti, e sui molti altri che si possono derivare dalla lettura del libro di Castles e Miller, agisce oggi come potente moltiplicatore e amplificatore lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione. È facile vedere, in ogni caso, che la migrazione è ben lungi dal riguardare soltanto chi migra. Studiare il tempo della migrazione significa davvero, in questo senso, studiare il nostro tempo.
L’introduzione a questa edizione di The Age of Migration si apre con un riferimento a due delle più significative esperienze di lotta che si sono determinate attorno alla migrazione negli ultimi anni in Occidente: le rivolte delle banlieues francesi dell’autunno del 2005 e le straordinarie mobilitazioni per i diritti dei migranti negli Stati Uniti nel corso dell’anno successivo. Si tratta evidentemente di movimenti molto diversi tra loro, tanto per le forme quanto per i «linguaggi» in cui si sono espressi. E tuttavia, scrivono Castles e Miller, «sia le rivolte francesi sia le proteste negli Stati Uniti mostrano la trasformazione della società  avvenuta negli ultimi decenni in seguito alla migrazione internazionale». Le rivolte nelle banlieues sono uno specchio in cui si riflette la difficoltà  crescente che incontrano, in Europa e non solo, i diversi modelli di «integrazione» dei migranti. 
I confini della cittadinanza
La moltiplicazione degli attacchi al «multiculturalismo» appare in questa luce il segno del prevalere di una reazione difensiva a quella sfida della diversificazione culturale che, secondo una delle tesi fondamentali di Castles e Miller, le migrazioni pongono alle concezioni tradizionali della «nazione» e della cittadinanza. Quel che ne risulta è un’enfasi sull’«integrazione» (evidente nell’introduzione di «test» e «accordi» di integrazione in diversi Paesi, tra cui l’Italia) che finisce per dilatare l’esperienza migratoria attraverso le generazioni, coinvolgendo nel sospetto di una lealtà  deficitaria ai «valori» della cittadinanza non solo i migranti di recente arrivo, ma anche i figli e i nipoti di quelli giunti in epoche ormai lontane. 
Le mobilitazioni statunitensi, d’altro canto, si sono indirizzate direttamente contro l’inasprimento della legislazione sull’immigrazione, la criminalizzazione degli «irregolari» e la costruzione di muri e fortificazioni lungo il confine con il Messico, dove l’azione di vigilantes privati e polizia di frontiera ha fatto da sfondo negli ultimi anni a un drammatico aumento nel numero di donne e uomini che hanno perso la vita nel tentativo di attraversarlo. A essere qui in questione sono i «confini della cittadinanza», tanto in senso letterale quanto in senso metaforico: la mobilitazione avviata nel 2006 dai migranti (in primo luogo latinos) ha infatti mostrato come tali confini attraversino la società  statunitense nel suo complesso, a partire dal mercato del lavoro, e ha interpellato in profondità  tanto il tessuto dell’associazionismo (prefigurando un nuovo «movimento per i diritti civili») quanto il movimento operaio (praticando nuove forme di sciopero sociale e attribuendo nuovo significato alla giornata del primo maggio, notoriamente non festiva negli Usa).
La migrazione è dunque anche terreno di lotta e di movimento (e questa affermazione potrebbe essere meglio verificata e qualificata spingendo lo sguardo al di fuori dell’Occidente, come Castles e Miller ci invitano a fare ricordando lo sciopero del 2006 degli operai edili migranti a Dubai). 
Il ridisegno della sovranità 
La «politicizzazione» delle migrazioni precedentemente menzionata si carica da questo punto di significati ulteriori rispetto all’investimento politico-elettorale effettuato sul tema da vecchie e nuove destre, all’insegna della criminalizzazione dei migranti, e al rilievo assunto dal nesso tra politiche migratorie e sicurezza tanto nella politica interna di molti Paesi quanto nelle relazioni bilaterali, regionali e globali tra gli Stati. Definita da Castles e Miller una «forza chiave della globalizzazione», la migrazione si presta in modo particolare a una lettura politica, nel senso che – come si è mostrato a proposito della cittadinanza, e come emerge nelle pagine dedicate al tema della sovranità  – in essa si riflettono alcune delle più rilevanti trasformazioni che stanno investendo nel nostro tempo istituti e concetti politici fondamentali: il punto di vista delle migrazioni consente di gettare luce non solo sulle determinazioni «strutturali» di queste trasformazioni, ma anche sulle tensioni e sulle contestazioni che le segnano.
La migrazione, scrivono Castles e Miller, «complica la politica». Questo libro si incarica di mostrarlo ricostruendo le tendenze in atto a livello globale rispetto alle politiche migratorie e all’attivismo dei migranti, alla diversità  culturale e ai processi di «segmentazione» del mercato del lavoro lungo linee di «genere, etnia, razza, origine e status giuridico». Su ciascuno di questi punti, e su molti altri, il lettore troverà  qui i riferimenti fondamentali (tanto fattuali quanto bibliografici e teorici) e un’impostazione equilibrata del problema. Quanto è necessario, insomma, per avviare una ricerca che potrà  poi svolgersi lungo linee e verso approdi anche diversi da quelli suggeriti da Castles e Miller, a cui andrà  comunque riconosciuto il merito di avere offerto a chiunque sia interessato alle migrazioni uno strumento di lavoro imprescindibile.


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