Lo stesso destino non saper vivere

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«È il mio gastigo, quando mi metto a vivere: non so vivere », confessa Anna Maria Ortese (Roma 1914 — Rapallo 1998). Un cruccio che la opprime, ma resiste così: «Ogni volta che voglio vivere scrivo». Oltre alle opere strettamente letterarie e al lavoro giornalistico, la corrispondenza è un altro percorso — forse il più immediato e istintivo, privo di filtri professionali — dove la Ortese si apre all’esercizio pratico e faticoso della vita, parlando di sé, tessendo il filo di rapporti che magari non durano molto. E dalla sparsa esistenza di presumibili epistolari inediti emergono le lettere a Elsa Morante (Roma 1912-1985) pubblicate in queste pagine insieme a quella — già  nota — a Pietro Citati che in gran parte la riguarda, scritta dopo la morte di lei e con meno enfasi rispetto a quando era in vita.
Nella nota che presenta i materiali morantiani sulla rivista Il Giannone da lui diretta, Antonio Motta ricostruisce gli esordi di una conoscenza fra le due scrittrici. Sono entrambe a Roma nel giugno 1937 alla Festa del libro, ed è la Ortese che da lontano vede la Morante, accanto a Moravia, nello stand allestito da Bompiani, ma non ha il coraggio di avvicinarsi (racconta a Stefano Malatesta in una intervista per Repubblica, 16 settembre 1986). Si seguono più o meno, da lontano, la stanziale Elsa e la nomade Anna Maria: ma quando nel 1965 da Vallecchi esce L’iguana l’accoglienza di pubblico e critica è deludente, e vende appena mille copie. Nelle successive edizioni quella Adelphi 1986 è forse la più fortunata e suscita la rivalutazione del romanzo — effetto Adelphi? — persino da parte di alcuni sodali del Gruppo 63 la cui idea di avanguardia letteraria non contemplava la scrittrice.
Ma l’occhiuta Morante, fin dall’anno della pubblicazione, era stata molto decisa nel definire L’iguana un capolavoro segnalandone qualche «stridore» nel finale. Se ne accorgono in pochi, ammette la Ortese, che però ne terrà  conto — precisa Motta — quando Rizzoli ristamperà  il testo. D’altronde, altre occasioni non solo epistolari rivelano quanto alta e appassionata fosse l’ammirazione di Anna Maria che nuovamente si manifesta per La Storia, il discusso romanzo del 1974, letto l’anno successivo.
Calore e partecipazione distinguono la lettera del 16 maggio 1975 interamente dedicata al libro, oggetto di adesioni favorevoli e di polemiche violente, tra le quali l’intervento di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi, Umberto Silva sul
Manifesto (18 luglio 1984). Le parole chiave adoperate dalla Ortese nell’interpretazione della vicenda e dei personaggi di
La Storia sono «stima umana», «persona umana», «dolore più vicino», «VI-VENTE libro», «emozione», «vita»: un apparato di sentimenti e un impianto lessicale che le sono congeniali. Trascurato invece, e lo afferma con forza, dai lettori di professione ai quali riserva la botta finale: «E solo la vita — a umiliazione dei critici — è forma». Nella sua estetica incombe il dolore, scolpito in frasi lapidarie come slogan: «la musica funebre della gioia che finì». Nelle tre righe del Post Scriptum
riesce persino a disegnare un miniautoritratto psicologico: esaltazione e negazione del proprio narcisismo.
Ancora il dolore: muore Carina, secondogenita di Aracoeli, protagonista dell’omonimo romanzo morantiano. Il forsennato dolore materno attira l’interesse della Ortese, in sintonia con quel dolorismo — l’ideologia del dolore — che in misura diversa accomuna le due scrittrici. Ma non sa quando le scrive il suo «giudizio penetrante», così definito da Motta, che pochi giorni prima dell’invio epistolare la destinataria ha tentato il suicidio. Informata del triste episodio, qualche settimana dopo le manda una letterina, ultimo atto di una amicizia che non l’ha schiodata dalla consuetudine di darle del Lei, ovviamente con l’enfatica maiuscola.
E proprio in questa lettera affiora il ricordo della visita di Anna Maria a Elsa nella casa di via dell’Oca, a Roma, attigua a Piazza del Popolo, probabilmente nel 1965 come arguisce Motta sottolineando l’aura leggendaria che già  circondava l’autrice di
Menzogna e sortilegio (Premio Viareggio 1948), L’isola di Arturo (1957), per di più ritenuta da uno studioso di rilevanza internazionale come Gyà¶rgy Lukà¡cs «uno dei massimi talenti di scrittore che io conosca». Spicca in quell’incontro l’accenno a un particolare gastronomico piuttosto ardito: «arance con la panna». Anna Maria le avrà  gradite?


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