Elogio della classe media

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La mia generazione è stata vittima di una Scuola rigidamente e ferocemente disciplinare. Sono stato probabilmente uno tra gli ultimi bocciati della Scuola elementare del Regno Unito nell’anno 1967. Ero alle prese con una maestra che pretendeva di insegnarci che la bellezza del fuoco consisteva solo nel fatto che il fuoco «non sta fermo ma si muove». La bellezza del fuoco non era nei suoi colori, nel suo brillare nella notte, nella sua memoria, nella sua storia antichissima, nel rendere possibile la convivialità  del pasto, nel calore che ripara, nel suo profondo rapporto con l’uomo e con la parola. La mia maestra rimproverava e rigettava stizzita qualunque altro tipo di risposta. 
Il rifiuto di apprendere fu allora il mio moto personale di protesta. Non volevo digerire quel sapere che pretendeva di essere così stupidamente assoluto. Non volevo stare in una Scuola che voleva fare esistere un solo pensiero sulla bellezza del fuoco. Gli studenti e gli insegnanti che hanno animato le contestazioni del ’68 e del ’77 esigevano una Scuola che non agisse solo come un’istituzione disciplinare e che non fiaccasse la vita distribuendo un sapere morto. Il loro errore – il nostro errore giovanile – era però consistito nel sostenere una versione solo puberale della libertà . Non contestavamo solo gli insegnanti che ritenevano ci fosse una sola risposta alla bellezza del fuoco, ma rigettavamo, più radicalmente, la dimensione obbligatoria della Scuola (che pure nel 1962 era stata una conquista, con la “media unica”, n. d. r.), i suoi programmi didattici, la sua finalità  che ci appariva solo ideologicamente educativa, la sua gerarchia burocratizzata, il suo essere una organizzazione del potere finalizzata a riprodurre l’adattamento passivo alla realtà . Quello che ci sfuggiva era la funzione fondamentale che la Scuola è chiamata ad esercitare nella formazione del soggetto. Ai nostri occhi la Scuola era solo il luogo di una Legge autoritaria. Anche la psicoanalisi insegna che l’obbligo uccide il desiderio. Eppure il paradosso della Scuola – e il carattere decisivo della sua funzione – si situa proprio qui: come si può fare sorgere il desiderio, il desiderio di sapere, quando l’apprendimento del sapere deve essere obbligatorio? 
L’obbligo della scolarizzazione non può essere descritto solo come un intruppamento disciplinare. In questo obbligo si gioca, in realtà , una partita etica. L’obbligo della scolarizzazione non deve essere confuso con l’azione repressivo-disciplinare della Scuola. Obbligare alla Scuola non autorizza a concepire l’educazione come un raddrizzamento dei fusti storti. Tra l’altro, sappiamo tutti che sono proprio le storture, le anomalie, le deviazioni dal solco già  tracciato della normalità , ad esprimere solitamente i talenti dei nostri giovani. L’obbligo della scolarizzazione impone un trauma benefico e necessario. Questo trauma è innanzitutto il trauma della de-maternalizzazione della lingua. È un trauma che impone un taglio, una separazione del soggetto dalla sua famiglia. In nessun modo la propria famiglia può esaurire il mondo; la Scuola segna l’uscita dal mondo della famiglia e l’incontro possibile con altri mondi. L’obbligo che essa deve incarnare è l’obbligo di lasciare la propria lingua madre. O, meglio, è l’obbligo di tradurre quella lingua in altre lingue. Gli studi più aggiornati sulla condizione Scuola in Italia ci dicono che sono più di ottanta le lingue che in essa si parlano. La Fondazione Agnelli ha recentemente confermato qualcosa che gli insegnanti democratici sanno già  molto bene, e cioè che le classi che funzionano meglio sono quelle socialmente più eterogenee. In questo senso la Scuola porta con sé – nel suo proprio Dna – un’anima profondamente multiculturale perché sancisce l’obbligo dell’umano di rivolgersi al mondo, di staccarsi dal clan di appartenenza, o meglio, di vivere e di giocare culturalmente la propria appartenenza nella contaminazione e nell’incontro con l’Altro. 
Nel nostro tempo la Scuola non è un’istituzione disciplinare, ma una istituzione di resistenza all’indisciplina di un iperedonismo che non conosce limiti. La resistenza della Scuola consiste oggi nel sostenere il valore traumatico della Legge della parola, in un’epoca dove il solo obbligo che sembra esistere è quello per il godimento fine a se stesso. Non casualmente una delle cifre più significative del disagio della civiltà  contemporaneo è la crisi generalizzata del discorso educativo. Qual è la ragione di fondo di questa crisi se non il declino della Legge della parola che è la sola Legge che introduce nell’umano l’esperienza dell’impossibile, cioè l’esperienza del limite? La solitudine della Scuola e degli insegnanti è legata al loro essere in controtendenza rispetto alla direzione incestuosa del comandamento sociale oggi dominante; garantire la perenne connessione del soggetto ad una serie infinita di oggetti inumani: alcol, droga, psicofarmaci, l’immagine del proprio corpo, oggetti tecnologici più vari. Perché vi sia desiderio di sapere, ma anche formazione, è necessario uno svuotamento preliminare di questa presenza adesiva dell’oggetto. Perché vi sia desiderio di sapere, perché vi sia trasporto, movimento, apertura verso il sapere, verso la cultura, perché vi sia – come teorizza la psicoanalisi – sublimazione della pulsione, vi deve essere svuotamento, distacco, sconnessione, rifiuto del godimento dell’oggetto. La sublimazione ha, infatti, come sua condizione di fondo il vuoto dell’oggetto, la sua perdita. In questo senso la Scuola dell’obbligo è in se stesso un luogo, oggi sempre più decisivo, di prevenzione primaria. La Legge che impone la via della parola come la via dell’umanizzazione della vita è la legge che promette anche una soddisfazione diversa. La Scuola è una istituzione che incarna un punto di resistenza etico alla cultura perversa del “perché no?” che sottrae ogni senso alla rinuncia e al differimento del soddisfacimento pulsionale. Già , perché no? Perché l’esperienza del limite può ancora avere un senso? Perché vi deve essere obbligo, scuola dell’obbligo? Non certamente – come pensavamo nel ’77 – per esercitare un potere di controllo sulla vita. L’obbligo della Scuola è benefico perché si sostiene su di una promessa di fondo. È la promessa che esiste un godimento più forte, più potente, più grande di quello promesso dal consumo immediato e dalla dipendenza dall’oggetto. Questo altro godimento si può raggiungere solo per la via della parola: è godimento della lettura, della scrittura, della cultura, dell’azione collettiva, del lavoro, dell’amore, dell’erotismo, dell’incontro, del gioco. La promessa che la Scuola oggi sostiene controvento è che il desiderio umano per dispiegarsi, per divenire capace di realizzazione ha bisogno, di qualcosa che sappia incarnare la Legge della parola, perché, sappiamo, senza questa legge non c’è desiderio, ma solo disumanizzazione della vita.


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