TRA QUEI BANCHI SI VEDE L’ITALIA

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Se dipendesse da me, intitolerei questo pezzo: «Elogio della scuola pubblica italiana». Sono stato quest’anno a colloquio, su argomenti di letteratura e di varia umanità , con docenti e studenti di vari istituti medi superiori (prevalentemente Licei classici, scientifici e linguistici), nelle più diverse località  del paese: a Milano, Ferrara, Perugia, Civitavecchia, Benevento, Campobasso, Sulmona, L’Aquila, Monreale, Catania; intorno a Roma, a Bracciano, Torrimpietra, Frascati; a Roma in Licei di estrema e media periferia (Pasteur, Primo Levi), oppure del più assoluto centro storico e della fama più consolidata e sicura (Mamiani, Tasso). Ovunque ho trovato un livello di attenzione e di preparazione più che decente, in taluni casi ottimo. Ovunque, un vivo interesse per un discorso culturale, che, dalle propaggini storiche più lontane dell’identità  italiana, arrivi fino ai nostri giorni, e da qui continui a proiettarsi verso il futuro (invece di arrestarsi all’altro ieri, come qualcuno vorrebbe). Dice: ma l’invito rivolto al «conferenziere di fama» costituisce di per sé un’autoselezione. Ossia: chi si fa vivo e partecipa, si colloca da solo al di sopra della media. Può darsi che sia vero. Di fatto, però, la linea dell’eccellenza, se di questo si tratta, presenta una sua sostanziale uniformità , che comunque sorprende. 
E del resto come potrebbe esserci una linea dell’eccellenza, se dietro di essa non ci fosse un intero organismo vitale e in movimento? Vorrei perciò utilizzare il caso personale per fare alcune considerazioni d’ordine generale. Come si è visto, io parlo prevalentemente della scuola media superiore, non solo per le esperienze personalmente compiutevi, ma soprattutto per la sua particolare incidenza nell’ambito dei fenomeni sui quali vorrei qui soprattutto attirare l’attenzione. Tuttavia, non ho alcun motivo di credere che gli ordini scolastici precedenti, dalla materna alla scuola media unica, non attingano al medesimo spirito unificante (per l’Università , invece, bisognerebbe fare un discorso diverso, più grave e preoccupato). Ebbene, io dico che nel nostro stanco, demotivato e potenzialmente sempre più disgregato paese, la scuola pubblica rappresenta senz’ombra di dubbio la nervatura unitaria più resistente e più pervasiva. Lo sanno tutti? Se tutti lo sapessero, non accadrebbe che la scuola pubblica italiana, invece d’esser considerata dall’opinione pubblica e dalle forze politiche, come dovrebbe, il soggetto istituzionale più importante e significativo, si presenti agli appuntamenti (compresi quelli che dovrebbero essere organizzati dai Ministri della Pubblica Istruzione, – cioè, per l’appunto, i suoi Ministri), come un grande «convitato di pietra» scomodo e misconosciuto. 
La nervatura di cui io parlo è fatta dell’omogeneità  dei programmi, di una diffusa e sostanzialmente uniforme dedizione dei dirigenti scolastici e dei docenti e dell’inesauribile travaso di esperienze che corre fra l’istituzione formativa e il resto del mondo (le famiglie in primo luogo, certo, ma anche le altre istituzioni dello Stato, la produzione culturale, il giornalismo, le innumerevoli realtà  locali italiane, il mondo così ricco e così specifico dei nostri beni culturali e ambientali, ecc. ecc.). Tutto ciò, però, non funzionerebbe come funziona, se far da cemento a tutto il resto non intervenisse un robusto ed estremamente diffuso spirito democratico. Non sto parlando delle opinioni politiche dei professori, di cui so poco, e che comunque non riguardano questo ragionamento. Sto parlando della disponibilità  al confronto e al dialogo, che è elevata, e permea di sé il complesso dell’istituzione. Ossia: da Milano a Monreale la scuola italiana è più italiana, – ossia è più comune, omogenea, riconoscibile, – di quanto accada a qualsiasi altra cosa le stia intorno, – politica, società  costumi e linguaggi. Certo, ci sono altre istituzioni unificanti, dal sistema politico democratico – rappresentativo alla magistratura alle (se non è una mia idea fissa) stazioni dei carabinieri. Ma nessuna possiede l’universale pervasività  della scuola pubblica e, come io sostengo, la sua sostanziale omogeneità . Se si entrasse di più nel merito, bisognerebbe parlare dei programmi d’insegnamento e della formazione (universitaria e post – universitaria) degli insegnanti: argomenti, ambedue, che condurrebbero a riflettere su altri aspetti dell’identità  culturale italiana di massa in questa fase storica, e renderebbe necessariamente più operativo (e forse più critico) il discorso d’assaggio che in questo momento sto facendo. Se le cose però stanno così, non si dovrebbe aprire oggi (come altre volte è accaduto in momenti nodali della nostra storia) un colossale dibattito per la difesa e il rilancio della scuola pubblica italiana? Si parla tanto di prospettive future per il nostro paese. Ma il cuore dello sviluppo sta nella buona salute presente e futura della scuola pubblica. Se non si riparte da questo, non si andrà  lontano.


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