Da Lara Favaretto miraggi straniati tra tubi, coriandoli e trombette

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A partire dal Disegno cancellato di De Kooning esposto nel 1953 da Robert Rauschenberg, l’arte concettuale ha continuato incessantemente a misurarsi con la dimensione dell’assenza e della cancellazione, nell’illusione che, in questo rincorrersi tra segno ed elisione, il senso e il valore del gesto artistico si potessero rigenerare infinitamente. A distanza di più di mezzo secolo è ormai chiaro che le cose non stanno esattamente così. È forse per questo che in Just Knocked Out, la prima retrospettiva dell’artista trevigiana Lara Favaretto, curata da Peter Eleey al MoMA PS1 di New York e visitabile fino al 3 settembre, le opere che meno convincono sono proprio quelle basate sull’idea di sottrazione. 
La mostra inizia con una stanza coperta da un denso strato di terriccio sotto al quale – veniamo informati solo dalla descrizione l’opera – è sotterrata una scatola contenente un misterioso oggetto appartenuto ad Albert Dadas, un operaio di Bordeaux «celebre» per la sua spiccata dromomania, una forma ossessiva di compulsione a compiere viaggi che non lasciano però tracce nella memoria di chi li ha fatti. Anche l’installazione di Favaretto, che rientra nella categoria dei «monumenti temporanei» da lei sperimentati già  nell’edizione 2009 della Biennale di Venezia, non ha il pregio della memorabilità  ma evocaper contrasto un’operastorica di Walter De Maria intitolata Hearth Room (1977), una distesa di terra concepita proprio come monumento che sfida l’idea stessa di monumentalità . Un simile effetto di déjà  vu dell’invisibile, che di fatto inscrive parte del lavoro di Favaretto nel poco eccitante territorio di tanta indifferenziata arte post-post concettuale, lo si sperimenta anche di fronte a 372 C, che consiste in un dipinto su tela acquistato da un rigattiere e meticolosamente mummificato da una ragnatela di fili di lana bianca che impediscono di scorgere cosa si celi dentro il bozzolo rettangolare.
Le opere che mostrano l’aspetto migliore della personalità  di questa artista trentanovenne, tra i partecipanti della tredicesima edizione di Documenta, sono quelle in cui la componente concettuale si lascia integrare e domare da una marcata sensibilità  pittorica. È il caso di Gummo, un’installazione formata da spazzole da autolavaggio di colori differenti che, azionate in modo alternato, ruotano su se stesse fino a consumare la lastra di ferro cui sono fissate. A colpire in quest’opera, che in una mostra del 2008 al Castello di Rivoli era stata presentata in una versione differente, assai più coinvolgente nelle sue dimensioni, non è tanto il senso di celibato del meccanismo, la lenta consumazione improduttiva, ma la poesia inerente alle scelte cromatiche operate dall’artista, che rimandano ai sorprendenti accostamenti di tinte di Marc Rothko.
Che nel lavoro di Favaretto scorra una carsica e minimale vena pittorica lo dimostra anche una delle opere più riuscite della retrospettiva, Grid after Piet Mondrian, Composition with Red, Yellow and Blue, 1921, appositamente realizzata per lo spazio del PS1. Questa installazione si snoda per l’intero percorso della mostra e consiste, apparentemente, in un reticolo di tubi di metallo organizzati a formare una serie di parziali impalcature. Se il senso che si percepisce è quello di un’instabilità  generale della struttura espositiva (e si potrebbe leggere molto in questo auto-puntellamento concettuale della propria prima retrospettiva) quello che lo spettatore non può cogliere a prima vista è il valore complessivo dell’intervento. Se si potesse vedere dall’alto, infatti, l’intreccio di tubi si rivelerebbe una copia su larghissima scala di un dipinto di Mondrian del 1921, il cui giallo, rosso e blu viene indicato da Favaretto tramite il colore di fili di lana inseriti all’interno dei tubi.
Quando questa sensibilità  per la forma ed il colore si unisce all’attitudine ironica e giocosa dell’artista, i risultati non mancano di generare quei pochi secondi di stupore che oggi bastano per affermare che un’opera è riuscita a catturare la nostra attenzione. Splendido, ad esempio, il territorio mutevole di Tutti giù per terra, una installazione del 2012 in cui alcuni ventilatori all’interno di una stanza sigillata muovono, impercettibilmente, un’infinità  di coriandoli colorati a formare un paesaggio poetico, un miraggio o – per impiegare una espressione di Favaretto – «un’allucinazione senza oggetto».
L’opera più accattivante della mostra è però rappresentata da Plotone, una serie di bombole d’azoto alla cui estremità  sono state sistemate alcune trombette, quelle che i bambini usano nelle feste di Carnevale. A intervalli imprevedibili, le singole bombole rilasciano un quantitativo di aria sufficiente a gonfiare la lingua della trombetta ma non abbastanza per provocarne il caratteristico suono festivo. C’è un’idea di sarcastica sconfitta in questo esercito d’aria compressa, uno sberleffo sornione alla storia fatta con gli eserciti, al suo ridicolo autocelebrarsi. Qui Favaretto è capace di mostrarci, con una straordinaria economia di mezzi, la sua non comune capacità  di straniare gli oggetti più disparati facendoci pensare.


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