Lotte secolari, Convivenze forzate le Province e l’Ironia della Storia

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Le Province, in Italia, sembrano avere lo stesso destino del ceto politico. Tutti ne parlano male e tutti, in un modo o nell’altro, sono avvinghiati al proprio Palazzo come l’ostrica allo scoglio. Sicché il progetto di drastica riduzione e accorpamento delle attuali Province, varato venerdì scorso dal Consiglio dei ministri, è di quelli che farà  epoca. O che farebbe epoca, se andasse davvero in porto. 
L’obbligo di rientrare nei criteri minimi indicati — almeno 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati di superficie — costringerà  infatti città , paesaggi agrari, ambienti naturali, culture e vicende talvolta remote a mescolarsi e venire a patti all’ombra di un’unica istituzione. La storia avrà  di che sorridere (o di che prendersi qualche, sia pur tardiva, rivincita). 
Dovranno probabilmente convivere Pisa e Lucca, che tra l’XI e il XIV secolo se le davano di santa ragione. O Siena e Arezzo, che a malapena il re longobardo Liutprando era riuscito a mettere d’accordo sui confini dei rispettivi vescovadi. Dovrà  tornare sui propri passi l’arrembante Rimini della prima industria italica del mare, la quale appena vent’anni fa era riuscita a scrollarsi di dosso l’ingombro di Forlì, il grosso centro romagnolo che qualche beneficio aveva pur goduto, durante il Ventennio, dalla circostanza di essere a 15 chilometri appena dalla fatale Predappio. Né, per condizioni materiali e storia patria, sarà  più facile l’accorpamento tra Latina, già  Littoria, terra di bonifica fascista, popolata dai coloni delle campagne del nord, e la ciociara Frosinone, periferia antica e flagellata da invasioni barbariche, conflitti altrui, terribili epidemie lanzichenecche e infine le crudeltà  della Seconda guerra mondiale. 
E neppure risulterà  agevole il matrimonio fra una terra pontificia come Benevento, tuttora orgogliosa del proprio mondo a parte, e un’Irpinia che le è confinante, ma storicamente e morfologicamente molto diversa. Per non dire del drastico accorpamento che incombe su Lodi e Pavia, sulle province subalpine da Ossola a Sondrio, sulle aree della Liguria occidentale, sul nord-est che va da Rovigo a Pordenone. 
La verità  è che disfare quel che costituisce un vero e proprio filo rosso della storia italiana sarà  tutt’altro che agevole. Simbolo di uno Stato costruito nel 1861 secondo espliciti criteri di accentramento, l’ordinamento provinciale di modello francese si impone subito a ogni ipotesi di regionalismo. Amministrate direttamente dai prefetti, fino all’età  crispina, e dunque sotto stretto controllo dei governi, le Province diventano il cuore di un rapporto fra centro e periferia che indirizza risorse alle periferie (opere pubbliche, posti di lavoro, eccetera) e, in cambio, consenso politico ai partiti di governo. Non è un caso che, già  nel tardo Ottocento, le spese per Comuni e Province crescano in modo vistoso.
Né è un caso che il numero delle Province lieviti sempre, nel corso di centocinquant’anni: erano 59 nel 1861 e diventano 76 nel primo dopoguerra, a seguito dei successivi accrescimenti del territorio nazionale. Ma poi, nel 1927, il fascismo ne crea diciassette in una volta sola, portandole a 95, e infine, tra tardo Novecento e nel terzo millennio, i governi repubblicani ne sanciscono la nascita di altre dodici. Fino al numero magico di 110.
La cosa interessante, però, sono i motivi con i quali la politica dà  via libera alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il 26 maggio del 1927, nel discorso con il quale annuncia l’istituzione delle nuove Province, lo stesso Mussolini spiegherà  che si tratta di un riconoscimento a quei centri di media taglia che, altrimenti, «abbandonati a se stessi, producevano un’umanità  che finiva per annoiarsi, e correva verso le grandi città , dove ci sono tutte quelle cose piacevoli e stupide che incantano coloro che appaiono nuovi alla vita». Era un modo come un altro per dire che la patria fascista faceva conto sulle «piccole patrie» della sua tradizione urbana periferica, prendendo le distanze dal mito politicamente insidioso della megalopoli. Un inno alla provincia, alla sua cultura spesso marginale, alla sua apprezzata coesione localistica e, non di meno, ai suoi notabili, che tanta parte avevano avuto nella presa del potere del regime. E, com’è facile capire dall’elenco stesso delle Province istituite nell’occasione, Mussolini pensava soprattutto all’Italia centro-settentrionale.
Del resto, quando, alcuni decenni più tardi, la Costituente dovrà  decidere sul futuro delle Province, avendo da contemperarlo con la nascita dell’istituto regionale, le resistenze alla loro abolizione diventeranno, nella discussione delle commissioni e poi in Aula, insuperabili. Fino a che, il 27 giugno del 1947, toccherà  a Meuccio Ruini rilevare come fossero stati molti e illustri i costituenti che avevano ricordato «l’esistenza tradizionale, qualcuno ha detto millenaria, della Provincia» e il suo antico radicamento nell’Italia dei Comuni: nelle Regioni centro-settentrionali, cioè, assai più che nel Mezzogiorno. Alla fine, come si sa, la Carta avrebbe stabilito che «la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni».
In realtà , la Costituente non aveva molto discusso sulle funzioni delle Province e sull’articolazione dei loro compiti nel futuro assetto regionale. Piuttosto, aveva ceduto al richiamo del passato, alla forza ideologica delle autonomie locali e alla loro versione virtuosa: la tradizione dell’autogoverno delle città  settentrionali sui propri territori.
Il che non basta per riabilitare le Province dal proprio storico e spesso opinabile ruolo di trait d’union fra un centro politico interessato al controllo dei territori e una periferia simmetricamente interessata alla generosità  della mano pubblica. E tuttavia, quelle parole di Ruini sembrano l’ennesimo richiamo (molti altri ce n’erano stati nelle terre di Carlo Cattaneo) a un’ipotesi di self-government saggio e responsabile che, per molti motivi, non ha mai avuto modo di realizzarsi nella nostra storia. Certo è che, senza volerle nobilitare, le probabili contese tra guelfi e ghibellini, che le decisioni del governo Monti promettono di riesumare, hanno un loro pedigree. Spetterà  all’intelligenza delle odierne «piccole patrie» prendere atto che i tempi dello spread sono tutta un’altra cosa.


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