ELEMIRE ZOLLA DALLA MISTICA ALL’INFINITO IL RAFFINATO CACCIATORE DELLE TRADIZIONI PERDUTE

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Quando incontrai la prima volta Elémire Zolla, a Roma in un pomeriggio invernale di quarant’anni fa, la conversazione finì per cadere su Adorno e su Burckhardt, l’autore di un saggio sull’alchimia che avevo letto da poco. Mi resi conto più tardi della singolare combinazione: i due autori stavano a significare due mondi, certo non affini, ma almeno virtualmente comunicanti. Zolla (scomparso dieci anni orsono settantaseienne) conosceva certo fin troppo bene il valore di saperi, come l’alchimia, frettolosamente rimossi o declassati a passatempo per ciarlatani. Ma per tornare ad apprezzarli occorreva liberarsi dal destino deludente che Adorno continuava ad assegnare, nonostante tutto, all’eroe individuale. L’intima compagine e dignità  dell’individuo, secondo Adorno, si sarebbe potuta acquistare soltanto a prezzo «dell’umiliazione dell’impulso alla felicità  intera, universale e indivisa », e con l’avvilente constatazione che il singolo, prigioniero di una impietosa dialettica, tende comunque a rispecchiare fedelmente le qualità  peggiori del suo ambiente sociale. Ma non è forse Mefistofele, come si legge nel Faust, il padre di tutti gli impedimenti? Bisogna superare l’ostacolo, osare il “salto”, mi disse poi Zolla in quel primo incontro, aggiungendo che la sua antologia su I mistici, apparsa nel 1963, per lui aveva rappresentato proprio quel punto di svolta. Da dove occorreva “saltare”, e per raggiungere che cosa? «Quasi tutti», scrisse Zolla diversi anni dopo, «passano la vita intera vedendo d’attorno null’altro che un suolo miserando e inerte: la vita quotidiana, strumentale, irretita nelle categorie note, recintata in ogni minimo aspetto». Parole che fanno intuire quanto fosse arduo affrancarsi dai riti di una pervasiva cultura di massa; come pure da tutte le invisibili fatture, vere aggressioni di magia nera, a cui siamo regolarmente esposti. Soprattutto nei suoi primi saggi, L’eclissi dell’intellettuale (1959) e Volgarità  e dolore (1962), prevalgono lunghi elenchi dei fascini, idoli, sortilegi, contagi, persecuzioni che si celano dietro le più semplici frasi, le espressioni comuni e le più innocue abitudini di cui abbonda l’esperienza quotidiana. Basta poco per esserne irretiti, per consegnarsi inermi e pressoché ignari a forze che insidiano senza tregua il nostro virtuale tesoro di sapienza, costringendoci a una difesa che è già  una capitolazione. I mezzi di affrancamento non si potevano certo trovare, secondo Zolla, in qualche fede nel “progresso”, una fede che si sarebbe potuta dileggiare con le stesse parole impiegate da Baudelaire: «Trasposta nell’ordine dell’immaginazione, l’idea di progresso (…) si erge con un’assurdità  minacciosa, con una bizzarria grottesca che sconfina nell’orrore». Le occasioni di liberazione e le migliori direttive per sostenerla Zolla le ritrovava piuttosto nei tesori di tradizioni perdute. Bisognava solo riscoprirli, riconoscendone le affinità  al di là  delle differenze. E non contava molto allora da dove si iniziava: se dalla Grecia o dalla mistica cristiana, dall’India o dal Giappone, dall’Islam o dalle tradizioni sciamaniche, dalla religione iranica o dalla mistica ebraica. Le vie più autentiche, ovunque fossero, miravano a un patrimonio comune di conoscenze. Una rigenerazione avrebbe potuto essere propiziata anche dall’insegnamento di uomini umili – come Alce Nero, Nisargadatta Maharaj o il sapiente Dogon – così lontani dai nostri preconcetti e pregiudizi più radicali. A chi avesse squalificato come “sincretismo” quella parificazione tra religioni e filosofie, Zolla avrebbe ricordato che l’antica Scuola di Atene e la rinascimentale Accademia platonica di Careggi erano pure state “sincretiste”, e avrebbe anche citato l’esempio di Ismaele, l’eroe del Moby Dick di Melville, che abbraccia il suo compagno di bordo, «un selvaggio Polinesiano adoratore di feticci e maestro muto di metafisica e di simbologia». Anche Zolla era un maestro nell’accostare culture e tradizioni lontanissime, grazie al suo talento linguistico e a una sterminata erudizione. Ma ciò
che lo distingueva era una piena sicurezza dell’insufficienza del linguaggio, una sicurezza che per lui stava al centro della conoscenza esoterica. E infatti l’essenza del mistico, si legge nei Trattati sui riti della tradizione vedica, è l’arte di “storpiare” le parole per custodire così la parola segreta, la sola che davvero conti. Zolla faceva suo l’insegnamento di Dante: la metafora è supremo mezzo di verità , ma non mancava anche di avvertire che i significanti, le parole, non attingono mai realmente i significati e i segni non riescono a raggiungere la realtà  indicata. È la parola intima che conta; decisiva è solo l’esperienza del possesso di ciò a cui la lingua si sforza di alludere. La Grecia arcaica distingueva fra la parola efficace e veridica, piena di senso, e quella vana, semplicemente appresa, che non persuade e non vale nulla. Il
logos interiore, coltivato nell’intimità , era sempre tenuto distinto dal logos esteriore, dal verbo pronunciato.
A Zolla interessavano molto le teorie della fisica e della matematica moderne: riteneva infatti che quelle teorie potessero mettere in gioco problemi di grande risalto e anche chiarire, in qualche caso, verità  prefigurate nella antica metafisica. Ricordo a questo proposito le visite nella casa sull’Aventino, popolata di gatti, che egli condivideva allora con Cristina Campo, finissima voce poetica, interessata lei stessa alla mistica e alla simbologia e spesso presente alle nostre conversazioni.
Si discuteva sulla natura dei principà® della matematica e sullo straordinario rilievo delle questioni sollevate dal calcolo quando vi è implicato l’uso dell’infinito. Da come è stato inteso di volta in volta l’infinito, se in atto o in potenza, è infatti derivato l’intero sviluppo della scienza come pure, in generale, del modo di pensare in Occidente. La geometria e la meccanica, la metafisica e la cosmologia, le arti e la politica, l’etica e la medicina ne sono state improntate. La matematica moderna ha infine ritrovato e fatto propria la filosofia dell’infinito dei greci. La stupefacente ampiezza di vedute di Zolla mi incitava, durante e dopo quelle visite, a riconsiderare le leggi del calcolo, ricollegandole a quel complesso e ricchissimo amalgama di filosofia, di religione, di tecnica, di letteratura e di misticismo che ne aveva segnato gli sviluppi, dai tempi più remoti fino all’età  moderna e alla scienza dell’ultimo secolo. A quella combinazione di elementi così eterogenei già  alludevano segretamente formule verbali, rintracciabili nelle fonti, rivolte tanto alla metafisica quanto a conoscenze positive di cui la matematica non ha mai potuto fare a meno di avvalersi.


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