Gore Vidal Anticonformista e provocatorio l’eleganza dello scrittore che emancipò i gay americani

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Gore Vidal, lo scrittore, critico, dandy, politologo, socialite, insomma, il grande personaggio che se ne è andato ieri, nella sua casa di Los Angeles, a 86 anni ormai portati con fatica, era bello, grande, elegante, patrizio. E, sotto le sue perfette grisaglie da aristocratico americano, sotto la sua aria kennedyana e il suo chic anticonformista, era litigioso, pugnace, battagliero, pronto in ogni momento allo scontro ideologico – e qualche volta, come testimonia la sua biografia, allo scontro fisico.
Era bello davvero, Gore Vidal, il ragazzo di buona famiglia nato a West Point, l’antonomasia del patriottismo americano; cresciuto nelle buone scuole di Washington; maturato politicamente leggendo per il nonno cieco, il senatore Gore, critico feroce dell’imperialismo americano; esperto fin da piccolo dei corridoi del potere politico e sociale; apertamente e provocatoriamente omosessuale. E ansioso e orgoglioso di dirlo.
Nello sbarco di Iwo Jima, nel 1944, aveva perso la vita a diciannove anni Jimmie Trimble, il suo amico del cuore, il compagno della sua giovinezza, “la mia altra metà ”, come avrebbe scritto di lui. E il legame tra Jimmie Trimble e Gore divenne il centro di un romanzo pubblicato tra grandi difficoltà  nella puritana America del 1948, che accolse La statua di sale (The City and the Pillar) con sdegno e perplessità , con pessime e irritate recensioni: come si poteva accettare serenamente un libro, quasi un autoritratto, che era la storia di un bravo ragazzo americano di buona famiglia innamorato del suo migliore amico? «Per vent’anni e più venni regolarmente attaccato per non aver sufficientemente adorato l’altare della famiglia». I critici del New York Times, di Time e di Newsweek giurarono che non avrebbero più letto un suo libro (e mantennero la parola, per ben sette libri). Il nome di Gore Vidal sparì nell’amnesia della critica ufficiale. Il silenzio creativo che seguì, e che coincise con una lunga parentesi vissuta tra Hollywood, per scrivere Improvvisamente l’estate scorsa, Broadway, per alcune pièce di successo, e la Hollywood sul Tevere di Ben Hur, a cui Gore Vidal partecipò con idee provocatorie e leggendarie risse, fu interrotto da Il giudizio di Paride e da Messiah, ma, cosa più importante, dal trasferimento di Gore e del suo nuovo compagno Howard Austen a Roma in Largo di Torre Argentina, nella casa con la grande terrazza che ora sta sopra la libreria Feltrinelli. È stata l’atmosfera romana a suggerire a Vidal il libro su Giuliano l’apostata. È stato con Myra Breckinridge, una satira provocatoria, sarcastica, coloratissima dedicata a Christopher Isherwood, su un transessuale tanto bello da prendersi sullo schermo la faccia e il corpo di Raquel Welch, che Gore Vidal lanciò un’ulteriore provocazione al perbenismo americano. Ma i tempi erano diversi, il ’68 stava mettendo in crisi molti valori consolidati, la virilità  tradizionale era stata messa in discussione per sempre, e il libro, dove fu pubblicato (in Australia era al bando) ebbe un enorme successo, divenne un film, ebbe un sequel (Myron). Ma negli alti e bassi di una storia letteraria che ha allineato successi e insuccessi, opere storiche e testi autobiografici (come Palinsesto e Navigando a vista), lavoro per il cinema (vedi l’incasinato e massacrato Caligola di Tinto Brass) e comparsate di lusso (interpretando se stesso per Fellini, in Roma), le cose più solide che Gore Vidal ci ha lasciato sono i sette volumi che compongono le Narratives of the Empire, il ciclo di sette romanzi che percorrono la storia o la controstoria americana, dall’Ottocento di Burr alla seconda guerra mondiale di L’età  dell’oro, dove si mescolano la storia con la “S” maiuscola e le storie dei personaggi, una documentazione minuziosa e una fantasia sfrenata, in un affascinante, ricco, complesso sistema narrativo pensato per rispondere a quella che Vidal chiamava l’amnesia degli Stati Uniti – anzi, gli United States of Amnesia, come recita il sottotitolo di Imperial America. Da Largo di Torre Argentina, spettacolare casa di Ravello, La Rondinaia, che acquistò nel 1972, e dove si rifugiò con Howard Austen, Gore Vidal continuava intanto la sua battaglie di polemista senza peli sulla lingua, i suoi interventi a volte brutali nella politica del suo paese. Se in passato non aveva avuto esitazioni a criticare un mito come Roosevelt e ad attribuire a Truman inquietanti manovre politiche, all’epoca dei Kennedy, con cui era imparentato alla lontana, che sostenne ma attaccò con la stessa franchezza riservata ai nemici politici (e con
gli stessi maliziosi apprezzamenti fisici che riservava ai suoi amici gay) Vidal si era candidato al Senato, e aveva preso una valanga di voti, pur senza vincere. Ronald Reagan com’è ovvio non gli piacque. Si è detto pentito di aver sostenuto Obama. Si è battuto contro la condanna a morte di Timothy McVeigh, il responsabile del massacro di Oklahoma City, «una fine barbara, decretata da una legge barbara in un paese barbaro». Di Bush junior la cosa più gentile che scrisse era che lui, con Rumdisfeld, come Cheney, erano “oil-Pentagon men”, petrolieri manovrati dal Pentagono, e che avevano usato la tragedia delle Torri Gemelle per una loro personale agenda contro l’Afghanistan. Sul fronte privato, come uno che ha attraversato da protagonista il secolo scorso, in Palinsesto (pubblicato in Italia come la maggior parte dei suoi libri da Fazi) fa i condallati con tutti, rievoca le risse e le scazzottate con Norman Mailer, lo snobismo di Truman Capote, l’ambizione di Jacqueline Kennedy, la nascosta omosessualità  (quasi) tutti, da Paul Bowles a Allen Ginsberg (che però voleva “guarire”), da Cocteau a Kerouac, con cui Vidal racconta di aver avuto un rapido
affaire. Intanto, nel 2005, Howard Austen è morto. La Rondinaia è stata venduta. E Gore Vidal è tornato a Los Angeles. Ora se ne è andato. Lo aspetta una tomba accanto al suo compagno, e, ci auguriamo, il ricordo grato degli United States of Amnesia.


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