Lo statista nomade della rivoluzione americana

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Per quanto oggigiorno la Rete, tra blog e social network, abbia reso improponibili certe operazioni politico-editoriali, non ci si dovrebbe meravigliare se nel nuovo ciclo di lotte globali, tra primavere arabe, indignados e Occupy, ci si dovesse imbattere in un pamphlet dedicato al rivoluzionario globale per antonomasia, Thomas Paine. Non sarebbe d’altronde la prima volta che Paine viene usato per la causa della democrazia e dell’uguaglianza. Lo sapevano bene i rivoluzionari e soldati che combattevano gli inglesi al comando del generale Washington, Thomas Skidmore e gli operai americani che attorno agli anni ’30 dell’Ottocento lottavano per la riduzione della giornata lavorativa, e anche i Cartisti inglesi. In una tasca la pistola o il martello e nell’altra Common Sense o Rights of men. Tutti. Un’esperienza differente la fecero invece quegli italiani ai quali nel 1945 fu distribuito, durante l’avanzata degli alleati, il libricino Il Cittadino Tom Paine. In questo caso Paine rispose all’esigenza americana di farsi promotore di un nuovo ordine di capitalismo e democrazia dato che quello precedente, sul vecchio continente, era stato spazzato via dal nazismo e dal fascismo.
Apprendista artigiano, mozzo, agente delle tasse per il governo inglese, giornalista, diplomatico per il Congresso degli Stati Uniti, deputato della Convenzione nazionale francese, rivoluzionario per tutta la vita: il «cittadino Paine» è stato tutto questo.
Sovversione atlantica
Non deve perciò stupire che negli anni una vita tanto ricca e complicata abbia prodotto immagini talmente differenti da presentarlo ora come sostenitore dell’ordine liberale e costituzionale ora come ateo, rivoluzionario e radical. Il libro del ricercatore Matteo Battistini, Una Rivoluzione per lo Stato. Thomas Paine e la Rivoluzione americana nel Mondo Atlantico (Rubettino, euro 14) non è però l’ennesimo ritratto di Tom Paine. Nonostante l’accurata ricostruzione della sua biografia politica, dalla poco nota ma assolutamente rilevante «formazione» inglese fino al ritorno negli Stati Uniti, passando per entrambe le sponde dell’Atlantico rivoluzionario, la figura di Paine diviene uno sguardo decentrato, laterale, col quale Battistini narra un’altra storia dello Stato, dell’ordine sociale, delle rivoluzioni atlantiche nella transizione al capitalismo. 
«Biografia di uno sconosciuto» potrebbe essere il titolo complessivo del libro, e non solo quello del primo capitolo dedicato al Paine inglese. Lo sconosciuto, però, in questo caso non è tanto l’infaticabile rivoluzionario atlantico quanto quello Stato per il quale egli lottò e alla cui costruzione dedicò le proprie «interminabili» energie fisiche e intellettuali. Quello stesso Stato considerato per lunghi anni anche dalla storiografia più attenta quasi una semplice «comparsa» nella settecentesca vicenda occidentale della transizione al capitalismo. Per non parlare della vulgata mainstream dello Stato debole o del governo minimo sulla quale, ancora oggi, sono costruite gran parte delle retoriche neoliberiste statunitensi e delle analisi sugli Stati Uniti. 
Va chiarito che la storia delle origini dello Stato americano descritta da Battistini non è quella, nota, dell’affermazione della sovranità  popolare al di là  dell’Atlantico. Piuttosto, è immersa nel complesso e contraddittorio processo «globale» di organizzazione e di differenziazione di economie e società  in senso nazionale che fa da contrappunto alla transizione al capitalismo. Un processo nel quale l’America indipendente non emerse come una società  senza Stato, né lo Stato intervenne a conclusione della transizione al capitalismo come formale sanzione giuridica del possesso e non possesso di proprietà . Fin dall’epoca rivoluzionaria lo Stato americano non indica esclusivamente una semplice emanazione giuridica e astratta del potere costituente del popolo, ma si definisce, amministrativamente e concettualmente, come vera e propria performance della società .
Paine e la sua opera sono come una spugna capace di assorbire le trasformazioni del suo tempo con tutte le sue tensioni e contraddizioni. La sua fu davvero una rivoluzione per la costruzione del primo Stato postcoloniale della modernità . Egli vide in esso l’unica possibilità  di fronteggiare l’instabile fronte internazionale e il disordine interno apertosi con la guerra di indipendenza. L’unico strumento per definire un mercato nazionale (attraverso la fondazione di una banca centrale e l’istituzione del debito pubblico) che si desse come spazio unitario di azione delle forze economiche e di governo dell’iniziativa privata (sulla frontiera). La leva principale per spezzare le rigide gerarchie del passato e sostituirle con una reciprocità  economica sancita dalla libertà  contrattuale. 
Ma, proprio per la sua natura di performance della società , lo Stato di Paine non poteva che assumere anche il ruolo di motore del processo di affermazione della società  commerciale nel suo volto più increspato e sporco, quello delle gerarchie sociali e razziali, quello della disparità  economica tra ricchi e poveri, quella della ridefinizioni delle strutture di dominazione imperiale, quello dell’accumulazione capitalistica e della proprietà  contro il lavoro.
Temporalità  del cambiamento
La biografia di Paine è la cifra di queste contraddizioni e non si può negare che egli le scontò tutte sulla propria pelle. Povertà , celebrità , onore, diffamazione e galera. Pur avendo assunto ruoli persino ambigui, come quello di ghostwriter per la fazione dei mercanti nella lotta per l’istituzione della Banca nazionale e per il finanziamento del debito pubblico, Paine non rigettò mai il proprio credo democratico ed egualitario. Anzi, anche le scelte di campo più incomprensibili assumono il significato di rispondere alla sfida di come assicurare un equilibrio stabile e sicuro tra uguaglianza politica ed emancipazione sociale. Così come nella sua biografia politica anche nella sua produzione teorica è possibile rintracciare varie fasi nelle quali si specifica e ridefinisce il rapporto tra società  e governo alla luce delle tensioni che emergevano sotto i suoi occhi. Per quanto, soprattutto nell’ultima fase, la comprensione delle profonde tensioni/antipatie – come lui le definiva – che la società  commerciale portava con sé si fa sempre più netta, non per questo egli smise di considerare questa stessa società  come l’unico spazio concreto di mobilità  dei rapporti sociali e di affermazione dell’uguaglianza. Non si trattava tanto, quindi, di difendere i commons, agricoli soprattutto, dal processo di appropriazione del capitalismo fondiario – come alcuni interpreti sostengono -, ma di comprendere la temporalità  ricca della società  commerciale tesa verso un futuro che, spazzando via il passato, continuava a essere gravido di cambiamento e della capacità  di incarnare un ordine egualitario delle relazioni tra gli esseri umani. 
La coscienza di queste tensioni e l’esperienza del Terrore francese gli mostrarono la precoce crisi di quel processo di democratizzazione e di trasmissione della rivoluzione al quale egli dedicò la propria vita. Nonostante quel processo fosse messo sotto scacco dal disordine legato all’accumulazione di proprietà  e all’affermazione del lavoro salariato Paine non mostrò mai alcuna nostalgia verso il passato. La rivoluzione e il processo costituente americano, infatti, avevano dischiuso, ai suoi occhi, un mondo nuovo nel quale anche vecchi concetti, come quello di Stato, potevano assumere un nuovo significato perché incastonati in una nuova griglia semantica centrata sulla società  intesa come spazio dell’ordine ma anche della sua contestazione. In questo senso, anche l’enfasi sulla rappresentanza e sulla Costituzione non deve essere letta come ripiegamento liberale verso quel «costituzionalismo dei migliori» o «degli uomini sobri» che Paine contrastò sempre tanto negli Stati Uniti quanto in Francia, ma piuttosto come il segno della consapevolezza che su questo frangente si giocavano le posizioni dominanti nella società .
Dall’Europa all’America e viceversa, Battistini accompagna Paine nella descrizione di una società  in transizione, investita da un sommovimento così potente da travolgere anche la forma istituzionale più consolidata: l’uguaglianza che in modo dirompente si affermava sulle due sponde dell’Atlantico fu una vera e propria «Rivoluzione per lo Stato», una rivoluzione che non gli consentirà  più di tornare dov’era prima.


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