QUANDO LA VOCE DI UN LIBRO TI RAPISCE DAL MONDO

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Era Il senso di una fine, di Julian Barnes. Non ero un appassionato di Barnes, fino a qualche anno fa avevo una preferenza per il suo nemico Martin Amis (dovuta al virtuosismo di La freccia del tempo e all’incipit di L’informazione). Anche Il senso di una fine aveva un inizio notevole dal punto di vista letterario, specialmente per via dei fiotti di sperma che girano in uno scarico prima di farsi inghiottire dal lavandino per l’intera altezza di un edificio. Non metto virgolette perché cito a memoria. Questa non è una recensione, ne sono già  state scritte molte. È, piuttosto, il resoconto di una personale esperienza di lettura e un suggerimento: doveste portarvi o scaricarvi un solo libro per l’estate, sia questo. Aggiungo: non fatelo sotto il sole, vi scottereste perché non sarete più in grado di muovervi. Io non lo feci, quella sera. Il telefono cominciò a squillare, invano. Non potevo ascoltare nessuno: avevo trovato una voce. Ci sono romanzi che ti fanno rapire da un personaggio, altri da un intreccio. Questo, da una voce. Benché sia attribuita al protagonista, appartiene al narratore. Il protagonista non sa, non capisce. Il narratore sì. Il protagonista è immerso nella storia, non vede luce. Il narratore illumina, dice, con un linguaggio di ineguagliata purezza cose che hanno a che fare con le due parole contenute nel titolo: il senso e la fine. C’è un passaggio splendido e terribile. Il protagonista (Tony) si paragona all’adorato antagonista (Adrian). Ne ammette una volta di più la superiorità  perché quello pensa e agisce diversamente: ha una logica e la segue. Mentre lui, mentre la maggior parte di noi, sospetta, prende decisioni istintive, poi costruisce un castello di ragioni successive per giustificarle. Non è così e non è tremendo? Quanti, davvero, sono in grado di sopportare il peso della logica e della verità ? Di dirsi chi si è, come si è fatti
e scegliere di conseguenza? No. La maggior parte di noi vive a caso e poi attribuisce a quel caso un progetto intelligente. Proietta di sé un’immagine accettabile ricostruendo a posteriori un percorso in origine dissennato e cieco. Non racconta la propria esistenza, ma un alibi confezionato la notte dopo l’incidente per sfuggire alla punizione, che sarebbe la disistima. Anzitutto, di se stessi. Potremmo sopportarla e andare avanti? Non se gravati dal peso dell’intelligenza.
Questi sono gli antipodi di Barnes e del suo romanzo: il personaggio intelligente, quello che ammette e fa derivare conseguenze e il personaggio incapace di capire, che semplicemente sopravvive, perché, quasi inevitabilmente, il senso produce la fine.
Le vite, tutte le nostre vite, possono essere definite come lo studente impreparato descrive il regno di Enrico VIII: un tempo inquieto. Per un periodo siamo una banda di ragazzi urlanti le cui torce incrociano fasci di luce nel buio. Questa è la gioventù: una corsa nell’oscurità , una ricerca senza oggetto che incappa nelle svolte, calpesta significati, addita e confonde. Che cosa? L’esistenza con la letteratura. Perfino in chi non ha letto mai. Tutti abbiamo del nostro destino un’idea letteraria. Vocati a una qualche tragedia, una qualunque grandezza, briciole di eroismo, coniugazioni ripetute del verbo suscitare. Poi c’è la realtà . C’è l’accumulo. C’è la responsabilità . E al di là  di questo, c’è il tempo inquieto. Il tempo molto inquieto. Quello della disillusione. In cui rimuoviamo per andare avanti, come fa il protagonista. Perché non farlo significa finire, come accade all’antagonista nobile. Questo è il vero bivio del romanzo di Barnes: o il senso o la fine. Accumulare per non vedere. Vivere per dimenticare. Continuare a posporre la data di scadenza: quella in cui ammettere chi si è stati, che cosa si è fatto. La storia non è scritta dalle menzogne dei vincitori, come sostiene Tony. È piuttosto, come corregge Adrian, una certezza prodotta da imperfezioni della memoria e inadeguatezza della documentazione. Ergo: non ha senso. La nostra personale storia non ce l’ha: se lo avesse, finirebbe. L’imperdonabile errore di Francis Fukuyama è stato proclamare una fine della storia e trovarla pure sensata. Gli unici momenti in cui la storia dell’umanità  e degli individui si carica di significato e passione sono i sussulti, i precipizi, i crolli che preannunciano il nuovo. Poi, come ogni cambiamento storico o politico delude, così succede con il diventare adulti. Tutti abbiamo avuto muri di Berlino, la cui distruzione ha aperto varchi di entusiasmo seguiti da imborghesimenti, trasferimenti all’ovest, placide ricostruzioni. Fino al sospetto che lo scopo dell’esistenza sia, come scrive Barnes, riconciliarci per sfinimento con la sua perdita finale dimostrandoci che la vita non è all’altezza della propria fama. Ma se non lo è, non c’è altro. E ammetterlo non serve. Serve solo provare, e sbagliare, e non dimenticare mai, fino all’ultima goccia di luce.
Era notte quando ho finito di leggere. Il telefono aveva smesso di suonare. La tavola a cui non mi ero seduto era stata sparecchiata. Mi sono alzato e sono andato alla finestra. I ragazzi della Pace University sciamavano carichi di voglie che un tempo inquieto avrebbe reso disillusioni o trascorsi. Davvero capire significa sempre non poter accettare? Ho ricordato la frase di un altro libro lontano (
Hotel New Hampshire di John Irving): bisogna sempre aver la forza di passare davanti alle finestre aperte. Disincantati, feriti e consapevoli. Perché se nulla ha un senso, neppure la fine.


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