Alcoa, l’attentato vero è al lavoro

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CAGLIARI. Mattinata di alta tensione ieri a Portovesme per il ritrovamento, annunciato con una telefonata anonima, di otto candelotti di dinamite, poi rivelatosi semplice mastice, su un traliccio di Terna all’ingresso dello stabilimento Alcoa. L’ordigno, spiegano gli investigatori, era confezionato bene, e a una prima ispezione poteva sembrare vero. Le immediate analisi sul materiale inserito all’interno dei candelotti hanno smentito si trattasse di gelatina. I fili che collegavano i candelotti e finivano in una scatola, fatta brillare sul posto, hanno poi fatto temere la presenza di un innesco che invece si è rivelato finto. Il ritrovamento ha scosso operai e sindacati, già  provati per la piega estrema imboccata dalla protesta: solo l’altro ieri, dopo quattro giorni di lotta a settanta metri di altezza, tre lavoratori sono scesi da un silos dell’acqua. Ore di trattativa con i delegati della Rsu per convincere i tre, uno dei quali con problemi cardiaci, a desistere. Ma con le bombe, vere o finte, loro non hanno e non vogliano avere niente a che fare. «Questo modo di agire non appartiene alla storia e alla cultura dei lavoratori dell’Alcoa», spiega il segretario della Fim-Cisl del Sulcis, Rino Barca. Per questo – in vista della trasferta di domani a Roma con almeno cinquecento operai che presiederanno il ministero per lo sviluppo economico in occasione di un vertice deciso per le sorti dello stabilimento di Portovesme – Barca annuncia che verrà  «rinforzato il servizio d’ordine, per scongiurare infiltrazioni estranee alla lotta sindacale».
La vertenza è alla stretta finale. Si tratta su due binari paralleli per cercare un nuovo acquirente in grado di rilevare lo stabilimento di cui Alcoa vuole disfarsi. Governo e Regione Sardegna puntano ad aprire il negoziato con Glencore, già  presente nel polo industriale del Sulcis con una sua società , la Portovesme srl; la multinazionale americana, invece, sta mantenendo contatti con Klesch. Domani durante l’incontro al ministero si saprà  se le manifestazioni di interesse sfoceranno in qualcosa di concreto. Ma le cose non sono messe bene.
Dopo settimane di voci contrastanti, di conferme e di smentite che si sono susseguite in una snervante altalena, la realtà  è che di proposte concrete non ne esistono. Lo confermano le parole del ministro Corrado Passera, che alla richiesta di fare il punto sulla trattativa in vista dell’incontro di domani ha risposto: «Al momento non ci sono imprenditori disposti a farsi carico della fabbrica di Portovesme, anche a fronte di un pacchetto energia compatibile con le regole europee e della disponibilità  della Regione Sardegna a coprire i gap infrastrutturali. Andremo avanti, se necessario anche per mesi, a cercare una candidatura, ma bisogna avere il coraggio di pensare anche ad altre soluzioni». In linea, la dichiarazione di Passera, con quanto ha detto ieri il vertice di Alcoa: «A noi non risulta alcuna offerta ufficiale di acquisto». Cosa probabilmente vera. Perché tutt’e due le corporation, sia Glencore sia Klesch, in realtà  sono state tirate dentro la trattativa dalla Regione Sardegna e dal governo. Contattate, hanno dato un consenso all’acquisto della fabbrica sarda condizionato alla riduzione dei costi energetici e alla copertura politica alla ristrutturazione degli impianti, cioè a una quasi certa riduzione degli organici (dagli attuali cinquecento addetti a trecentocinquanta). Sul primo punto, il governo ha risposto che sono pronti gli ammortizzatori sociali previsti dalla legislazione italiana; sul secondo punto, che di fatto è una richiesta di sussidi pubblici, l’esecutivo Monti ha fatto sapere che la bolletta Enel si potrà  ridurre per altri quindici anni, ma solo se su questo punto arriverà  l’ok dell’ Unione europea.
Nella partita si sta rivelando decisivo anche il ruolo di Alcoa. La multinazionale americana ha stabilimenti in diverse parti del mondo. La chiusura di Portovesme è legata all’alto costo dell’energia e al carico sui bilanci della manodopera, in un gioco di comparazione con i prezzi di energia e salari in altri paesi. Alcoa, infatti, non chiude in Spagna, ad esempio, e addirittura ha investito per la costruzione di un nuovo stabilimento in un paese arabo. Piuttosto che tenere aperto il sito sardo, giudica conveniente sborsare milioni per fare una fabbrica nuova dove i costi dell’energia e della monodopera sono enormemente più bassi che in Italia. Glencore e Klesch, poi, sono diretti concorrenti di Alcoa sul mercato dell’alluminio. E agli americani non piacerebbe trovarsi spiazzati, nella loro strategia che di fatto è di delocalizzazione, da due competitori. I quali a loro volta hanno poca voglia di accollarsi una fabbrica che ha costi di gestione relativi giudicati altissimi. La partita è aperta, e gli operai del Sulcis sono i giocatori più deboli.


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