Sallusti in carcere” ma la Procura sospende la pena

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«Andrò in carcere, la cosa non mi fa minimamente paura». Il nodo della cravatta “Regimental” allentato, tirato in volto, la voce arrancante come gli capita soltanto nei ruvidi confronti televisivi. Alle 6 e 10 di sera le parole di Alessandro Sallusti tagliano il silenzio al terzo piano della redazione del “Giornale”. Sono passati 24 minuti dal primo lancio di agenzia; la conferma della condanna a 14 mesi di reclusione per diffamazione adesso è un fatto, e il direttore — come era stato deciso in caso di sentenza negativa («aberrante», dice il caporedattore centrale Riccardo Pelliccetti) — convoca l’assemblea più sofferta nella storia del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli. Sallusti è in piedi, emozionato. Ha di fronte i suoi vice e i capiredattori. «Era doveroso dirlo prima a voi…». Inizia così l’atto finale della giornata più lunga, un discorso che si chiuderà  cinque minuti dopo con un commosso «vi ringrazio e niente… finisce qui». È il sipario da calare o da aprire su una storia storta che negli ultimi giorni aveva visto Sallusti nel ruolo di «globetrotter televisivo »: ospitate, interviste, telefonate a raffica. Per perorare la sua causa e cercare di allontanare il fantasma del carcere. «Ma alla fine non sono riuscito a suscitare nulla, e adesso mi fermo». In via Negri chi gli ha parlato nelle ultime ore dice che era sicuro che sarebbe finita così: «come in Siria», «come in Corea del Nord», come in un «paese schifoso», come riferiscono i suoi difensori più accesi. Infatti si era preparato Sallusti. «Dobbiamo farne una battaglia di libertà : per il nostro giornale, per tutti quelli che fanno il nostro mestiere. Perché questa è una sentenza politica…». Ribadisce il concetto durante il discorso — ripreso dalla telecamera — alla redazione. Un “video esclusivo” sparato sul sito del “Giornale”. Una liturgia non improvvisata per rispondere a viso aperto, e in tempo reale, a quei magistrati di cui — consiglia — «dovreste andarvi a vedere le storie politiche». Sono le 18.06. Il direttore convoca i suoi in riunione straordinaria. L’orario è quello che precede il momento in cui il Capo e i suoi vice, al solito, si riuniscono per impostare la “griglia” della prima pagina. Il titolo è già  fatto. Lo annuncia Sallusti alle telecamere di Barbara D’Urso, «amica di lunga data» e conduttrice di Pomeriggio Cinque. «“Sallusti va in galera”, è il titolo più semplice della mia vita». Sull’home page del sito del “Giornale”, appena la sentenza è ufficiale, campeggia la scritta “Vergogna”, a caratteri cubitali.
Lui inizia a parlare. Poi riassumerà  intervenendo alla pomeridiana di Canale 5. «Finita questa assemblea andrò dall’editore a dimettermi. Il giornale non può avere un direttore non libero, sarebbe imbarazzante per chi fa della libertà  un baluardo». Oltretutto, spiega, «non sarò libero neanche di fatto, non potrei fare il mio lavoro nemmeno da un punto di vista materiale. Vado in carcere… ». Il carcere e la giustizia politicizzata sono il perno intorno al quale ruota il discorso: un po’ commiato e un po’ intemerata. «Rifiuterò l’affido ai servizi sociali — una roba da Pol Pot — , non lo chiederò perché avendo commesso un reato intellettuale non mi va di farmi redimere o rieducare. Le uniche persone alle quali ho permesso di educarmi sono i miei genitori». Sallusti, nel giorno del giudizio, tira dritto e tiene il punto. Prima di decidere le sue mosse si è consultato a lungo, tra gli altri, con Daniela Santanchè, anche compagna nella vita, e con Silvio Berlusconi, suo editore attraverso il fratello Paolo. Gli ultimi contatti, in mattinata. E fa niente se Vittorio Feltri se la prende anche con il Cavaliere («la diffamazione è una legge fascista, nemmeno lui ha fatto niente per cambiarla»). «Non ho nessuna intenzione di chiedere la grazia a Napolitano — va in affondo Sallusti — perché in quanto capo della magistratura italiana ha grosse responsabilità . In questi sette anni non ha difeso i cittadini a sufficienza dall’invadenza e da una giustizia veramente politicizzata ». La tesi del direttore del “Giornale” è che la sentenza della Cassazione sia stata emessa da magistrati a lui politicamente avversi. «Sono il primo direttore condannato per una banalissima causa di diffamazione». L’hanno paragonato a Giovannino Guareschi ma lui dice che non vuole «fare la vittima». «Il problema di questo Paese — si sfoga con Barbara D’Urso — non è che mancano gli euro, ma che mancano le palle. Non sono un politico, non sono attaccato alla sedia, guadagno molto bene certo ma per difendere la mia dignità  sono pronto a perdere anche lo stipendio». La storia di questa condanna forse è solo all’inizio.


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