Tre punti fermi tra le macerie

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Al primo posto c’è il senso etico dell’agire politico, che si fonda sul dare concretezza ai principi enunciati nella Costituzione e in tutti gli atti fondanti della democrazia. Tra questi è il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge. Un principio che senza dubbio è messo in crisi da Nicola Mancino, ex presidente del senato e guida del Csm che, di fronte a un’indagine che lo coinvolge, cerca (ed ha accesso) alla più alta istituzione dello stato per premere, sapere, essere consigliato. Al di là  del valore di tale approccio e delle risposte ricevute – e forse al Colle era bene essere un po’ meno cortesi – questa immagine proietta un’ombra sull’assolutezza di quel principio di uguaglianza, dato che tali possibilità  sono certamente negate a un normale indagato. Rimuovere ombre di questo tipo è un dovere etico necessario, anche se non sufficiente. Il secondo aspetto riguarda il corretto bilanciamento dei poteri. Come ha scritto sul manifesto Gianni Ferrara, il ricorso di Napolitano alla Consulta va letto su un asse di distinzione e indipendenza dei poteri. I costituzionalisti non sono concordi sulle prerogative della funzione presidenziale in casi così al limite quale è quello delle intercettazioni indirette e della loro valutazione; resta però concorde la valutazione che le due funzioni di garanzia del presidente e della Corte sono diverse, indipendenti, e devono essere preservate integre entrambe. Vedere in quel conflitto un’irriducibile asimmetria, come qualche autorevole voce ha fatto, perché la Corte sarà  per forza indotta a dare ragione al capo dello stato, vuol dire ritenere che le sue valutazioni e le sue sentenze sono sottoposte a un criterio di opportunità : criterio che appartiene alla sfera politica o a quella del consenso, ma non può invece appartenere alla sfera giuridica. Le vicende degli ultimi anni e la necessità  di fronteggiare un governo capace di attacchi continui a tutte le istituzioni di garanzia hanno finito col proporre il criterio del consenso anche nelle decisioni giudiziali: dalla concessione o meno di una custodia cautelare e lo schierarsi pro o contro una procura fino al ritenerlo un parametro in grado d’influenzare la decisione del supremo giudice. Ricostruire una cultura dell’indipendenza dei poteri e del loro bilanciamento richiederà  un’azione decisa e continua per ricostruire sulle macerie di questo recente passato. C’è poi una terza linea di riflessione: quella sullo spazio pubblico quale luogo di discussione e di costruzione della politica. La rappresentazione che emerge dalla lettura dei titoli dei giornali di questi giorni – siano essi del giornale di famiglia dell’ex presidente del consiglio o del giornale più tifoso per le procure – proiettano tutti un’immagine d’impotenza. Una rappresentazione della politica come gioco tra apparati distanti e oscuri che schiacciano i singoli e le forze sociali. Di fatto tutta la vicenda, così convergentemente rappresentata, finisce col confermare il quadro esistente, caratterizzato da un doppio scenario. Da un lato l’inesistenza dello spazio pubblico, poiché questo è occultato da decisioni che si mascherano di «tecnica» (giuridica o economica) e che rendono inutile l’elemento discorsivo della politica. Dall’altro, una simulazione di tale spazio, con forme ribellistiche verbali e populiste che non discernono e finiscono per perpetuare l’esistente. Questi giochi di presunti ricatti e di presunte difese hanno il primo effetto di non cambiare nulla; tranne, ovviamente, il calendario parlamentare riportando in alto la questione delle intercettazioni e tralasciando la legge anticorruzione che l’Europa sempre più pressantemente ci chiede. Solo la ripresa di agire politico, l’apertura verso le molte realtà  territoriali e associative ben esistenti e vive nel paese, la rottura degli schemi strettamente partitici sulle alleanze, possono dare aria a un quadro che appare altrimenti puramente sulfureo.


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