Uniti ma divisi, il paradosso tirolese

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Sono passati quasi trent’anni dal giorno in cui, all’ultimo piano del palazzo della Mondadori a Segrate, qualcuno mi disse: «Ti mandiamo a Bolzano, in Alto Adige, a fare un’inchiesta sul bilinguismo». Una vacanza in piena stagione turistica. Cosa potevo volere di più dalla vita?

Era il febbraio del 1983 e i problemi di quella terra, che dopo il crollo dell’Impero austro-ungarico era stata oppressa in modo brutale dal fascismo, e poi era stata costretta a scegliere tra fascismo e nazismo, sembravano aver trovato, finalmente!, una soluzione ragionevole. C’erano stati gli accordi De Gasperi-Gruber del 1946, e poi c’era stato nel 1972 il famoso «pacchetto», con cui l’Italia garantiva all’Alto Adige-Sà¼d Tirol una autonomia tra le più avanzate che si conoscessero. Io allora ancora non lo sapevo, ma tra le norme del «pacchetto» ce n’era però una che tanto ragionevole non era, perché doveva far tornare indietro la storia.
C’era quella «proporzionale etnica», il cui scopo non dichiarato, ma reale, era quello di ridurre il numero degli italiani, immigrati ai tempi del fascismo e ormai giunti alla terza generazione. Erano troppi.
Dovevo fare un servizio, come si suol dire, «di colore», e mi trovai proiettato in un laboratorio politico e umano unico al mondo. Una macchina del tempo: che aveva incominciato a funzionare proprio in quei mesi.
C’era stato, nel 1981, il «censimento etnico», in cui ogni residente in Alto Adige aveva dovuto dichiarare la sua appartenenza a uno dei tre gruppi locali: tedesco, italiano o ladino. Anche se era sloveno o cinese.
Alexander Langer e i quattro gatti di un piccolo partito che allora si chiamava Neue Linke-Nuova Sinistra erano andati a Roma e avevano fatto una dimostrazione davanti al Parlamento italiano, chiudendosi dentro tre grandi gabbie: le gabbie etniche. La loro protesta non aveva avuto risultati pratici ma era stata ugualmente importante, per il Sud Tirolo e per il genere umano. Era stato importante che si fosse manifestato contro il riproporsi in politica delle «etnie» come base di discriminazione, e che tra i manifestanti ci fossero dei sud-tirolesi. Grazie, Langer.
Ripensando a quei fatti con il senno del poi, credo di poter dire che ci fu, all’epoca, molta disattenzione da parte dell’opinione pubblica italiana. Si usciva dagli anni del terrorismo: anni difficili. In quanto ai politici, forse avevano creduto che non ci fossero altre vie d’uscita, e che gli errori e i crimini del fascismo si dovessero riparare in quel modo, chissà ! L’attenzione costante per l’Alto Adige di uomini anche molto diversi tra loro, come Andreotti o Pertini, mi induce a credere che la politica, ai suoi massimi livelli, sia stata consapevole dei problemi; ma che poi, come spesso succede in Italia, sia mancata la capacità  di operare nelle cose concrete, per facilitare i cambiamenti e per renderli un po’ meno drammatici.
Quando arrivai a Bolzano la macchina della proporzionale etnica aveva già  incominciato a macinare le sue vittime e c’era molta tensione, soprattutto tra gli italiani. Era il momento del «più ci dividiamo e meglio ci comprendiamo»: era il momento dell’assessore alla cultura Anton Zelger e della separazione nelle scuole, che del resto erano scuole in lingue diverse e non avrebbero mai dovuto essere unite. Ma vedere i nuovi ingressi freschi di muratura, o il muro a metà  del cortile della scuola elementare per dividere le ricreazioni dei bambini, confesso che faceva un certo effetto.
Parlai con più di cento persone, dal presidente della Provincia Silvius Magnago al commerciante, allo studente che faceva l’autostop. Conobbi tutti i protagonisti della scena politica di allora. Tutta brava gente, ci mancherebbe altro. Anche il terribile Anton Zelger era una persona colta e non priva di senso dell’umorismo. Anche gli anti-italiani dichiarati, in privato, erano persone amabili. Langer e il suo partitino erano conosciuti a Roma, a Vienna, forse anche a Bonn; a Bolzano contavano poco.
La situazione complessiva, però, era poco allegra. Gli italiani si scoprivano, di colpo, stranieri dove erano nati. Dovevano fare i conti con un sistema proporzionale che toglieva loro la maggior parte dei posti nel pubblico impiego. Dovevano imparare una lingua che non conoscevano: il tedesco, e la faccenda li angosciava. Ma la proporzionale etnica poneva problemi anche alla controparte tirolese, costretta a occupare (o a lasciare vuoti) posti che in passato non erano mai stati ambiti; e non portava a una crescita della convivenza. Anzi, al contrario: l’estraneità  e la paura reciproca dovevano essere coltivate da una parte e dall’altra, fino a diventare l’anima del nuovo sistema. L’odio doveva crescere.
(Anni fa ci fu il caso, a Merano, di un uomo che sparava alla gente sulla passeggiata. Era un povero squilibrato come ce ne possono essere ovunque. Però sparava a chi parlava italiano e uccise anche un tedesco, che era in compagnia di una donna italiana e che in quel momento parlava la nostra lingua).
A novembre, tornai a Bolzano per seguire le elezioni provinciali, che lì sono di gran lunga le più importanti. Ascoltai i discorsi della politica. Le parole al vento di Ingrao: «Signori della Volkspartei, sappiate almeno alzare il tono della polemica con Roma». Quelle pragmatiche di Forlani: «La gente, qui, è come dappertutto. Non ha la coda né lo zoccolo caprino». Quelle programmatiche di Magnago: «Non si può parlare di apartheid perché qui non ci sono razze umane, però noi dobbiamo chiuderci in noi stessi, dobbiamo a tutti i costi essere diversi».
Sono passati trent’anni. Magnago non c’è più, Langer non c’è più. I protagonisti di quella stagione sono quasi tutti scomparsi. Tutto è cambiato perché tutto restasse com’era: e almeno questo ci dice che siamo, se non proprio in Italia, nei suoi immediati dintorni.
La coltivazione dell’estraneità  e delle paure ha prodotto attorno alla Volkspartei una fioritura di partitini irredentisti che forse nascono da ragioni ideali, ma poi subito diventano fabbriche di carriere e di stipendi. L’irredentismo non ha sbocchi: l’Europa delle frontiere è un castello di carte dove non si può toccare niente, perché se sposti qualcosa viene giù tutto… Però serve. Qualche contagio tra le etnie, nonostante tutto, c’è stato. Dicono i giornali che l’attuale presidente della provincia di Bolzano, Durnwalder, guadagna più della cancelliera federale Merkel e di altri capi di Stato. Vizi italiani in salsa tedesca o vizi tedeschi in salsa italiana? Chissà .
Parlare di ideali europei e di cose del genere a Bolzano è soltanto retorica. L’Alto Adige era, e continua a essere, un laboratorio politico e umano unico nel suo genere, dove il numero degli italiani è diminuito ma non ancora abbastanza e dove, a quanto mi si dice, tutto continua a basarsi su quella «proporzionale etnica» che, entrata in vigore il 20 gennaio 1972, doveva durare trent’anni.
Anche calcolando i ritardi per il censimento e per la sua applicazione pratica, di anni ormai ne sono passati più di quaranta. Non sarebbe tempo di cominciare a vivere come nel resto del mondo? Senza nulla togliere all’autonomia, che c’è e deve rimanere. Visto che Francesco Giuseppe non torna, e che non tornano nemmeno Mussolini e Hitler. Si potrebbe mettere in soffitta la macchina del tempo, e guardare avanti.


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