E DI SEMPLICE NON RESTà’ NULLA

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Forse non dovremmo mai voltarci indietro, perché la vita è un treno che corre dritto sul binario. Ma sta di fatto che adesso la locomotiva attraversa un paesaggio di città  fortificate, l’una contro l’altra. L’unità  del Pdl è come un ricordo dell’infanzia: bene che vada, gli subentrerà  una federazione con due gambe, o magari con tre. Nel Pd Renzi e Bersani non incarnano una sfida tra diverse esecuzioni d’uno stesso spartito; no, suonano musiche opposte, il rock and roll e il liscio romagnolo. C’è insomma lo spartito, non c’è più il partito. O meglio ce ne sono troppi, dalla sinistra di Vendola al movimento di Grillo, che ovviamente non ha nessuna voglia di mescolare le sue truppe con quelle guidate da Di Pietro. E senza contare i nuovi commensali: Italia futura, la lista dei sindaci, quella di Giannino.
In questo specchio infranto si riflettono anche le nostre istituzioni. L’officina del diritto è affollata di meccanici: dettano norme gli atenei, le autorità  portuali, i consigli di quartiere. L’attività  amministrativa è a sua volta frantumata, sicché — per dirne una — sui nostri 13.503 acquedotti vegliano 5.513 enti. Il controllo del territorio viene affidato a 6 forze di polizia nazionali e a 2 locali. Ma i custodi sono ormai un esercito, anche se per lo più sparano a salve: al capezzale di mamma tv, per esempio, sgomitano la Vigilanza, l’Autorità  per le comunicazioni, il ministero, l’Antitrust. Un tempo avrebbe potuto metterci ordine la legge, ma anche la legge è diventata un condominio dove s’accalcano 2 Camere, 20 Consigli regionali e 2 provinciali, Trento e Bolzano. Insomma, siamo passati dalla separazione alla disgregazione dei poteri. E giocoforza questi poteri disgregati trascorrono i loro giorni a litigare sulle rispettive competenze. In questo momento davanti alla Consulta pendono 6 conflitti tra poteri dello Stato, 12 tra Stato e Regioni, 126 ricorsi sulla spettanza della potestà  legislativa.
Potremmo interrogarci a lungo se questa diaspora sia il riflesso, o piuttosto la causa, delle fratture che solcano la società  italiana. Dove armeggiano corporazioni e camarille, ordini e collegi, correnti giudiziarie e sindacali, disputandosi il terreno palmo a palmo. Anche in questo caso non c’è un popolo, come non c’è uno Stato. C’è viceversa una serie di tribù, e guai a te se ne rimani fuori: ci rimetteresti la carriera. Eppure è esattamente questa l’urgenza di cui dovrebbe farsi testimone la politica. C’è bisogno d’unità , non di ulteriori divisioni. C’è bisogno d’istituzioni unificanti, quando fin qui soccorre soltanto il Quirinale. Significa sbarazzarsi di tutti gli enti, portenti e accidenti che ci teniamo sul groppone. Ma significa altresì recuperare l’interesse nazionale quale limite alle leggi regionali, come ieri ha ribadito Galli della Loggia. E significa introdurre un sistema elettorale che scoraggi la frammentazione. Dopotutto la semplicità  reca almeno una virtù: non ti complica la vita.


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