Codice identificativo, la trasparenza fa paura

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Promettono indagini serie e «rigorose» sul Ministero di Giustizia diventato per la prima volta dal dopoguerra «un fortino di guerra» (definizione dei Giovani democratici) contro i manifestanti; garantiscono oltre ogni dubbio che i «poliziotti responsabili degli abusi» sugli studenti inermi durante il corteo 14N «verranno puniti». Messe davanti all’evidenza dei filmati, ora corrono come possono ai ripari, le ministre dell’Interno e di Giustizia, Annamaria Cancellieri e Paola Severino, e assicurano che questa volta non ci sarà  impunità  per le forze dell’ordine che hanno violato la legge. Mentre la Guardasigilli si muove ancora con difficoltà  nel bailamme di accuse e controaccuse, per ricostruire ciò che realmente è accaduto nel suo stesso edificio, alla responsabile del Viminale – costretta a osservare in video un ragazzino steso a terra, circondato da poliziotti, e preso a manganellate in faccia da un agente che gli tiene fermo il capo per colpire meglio – non resta che annunciare: «La violenza su un inerme è intollerabile e ingiustificabile. Questo poliziotto sarà  identificato subito. Sono io ora, a voler sapere chi è. Faremo le dovute valutazioni e ne trarremo le conseguenze disciplinari. E lo stesso varrà  qualora altre immagini dovessero documentare comportamenti simili». 
Ottimo. Si spera solo che questa volta, a differenza di quanto accaduto da Genova in poi, l’identificazione delle “mele marce” sia resa possibile dalla cooperazione dei tanti poliziotti onesti che hanno operato in piazza mercoledì scorso, e che non sia invece ostacolata, come avvenne per la «macelleria messicana» dei no global, dall’omertà  dei colleghi. Sì, perché l’Italia detiene il triste primato europeo di essere uno dei pochi Paesi democratici dove gli agenti non sono ancora identificabili attraverso un codice alfanumerico riportato sulle divise. Non un nome e un cognome, ma un codice traducibile in un’identità  precisa solo all’interno dello stesso corpo di appartenenza, in modo da superare l’obiezione (risibile, a dire il vero, ma usata ormai in Italia come spauracchio e considerata ragionevole perfino da un “tecnico” come l’avvocata Severino) secondo la quale la maggiore identificazione dell’agente metterebbe a repentaglio la sua incolumità  personale e familiare. La pensa così, per esempio, Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato penitenziario maggiormente presente tra i dipendenti e gli agenti che lavorano all’interno del Ministero di Giustizia, quello da cui sembrano essere partiti i lacrimogeni. Capece addirittura attacca il ministro Severino chiedendone le dimissioni perché, dice, «non sa nemmeno cosa succede all’interno del suo dicastero: avrebbe dovuto prendere subito le difese della sua polizia spiegando che noi non abbiamo in dotazione lacrimogeni e raccontando invece che sul terrazzo del palazzo di via Arenula erano saliti quella mattina gli agenti Digos per filmare il corteo». 
Ma se nella società  civile sono in molti a chiedere di rendere identificabili gli agenti delle forze dell’ordine (come hanno chiesto anche ieri gli studenti: «Se non ci sono colpevoli per un reato, il rischio è che colpevoli lo siano tutti»), molto più reticenti sono invece le forze politiche. Solo Sel e Fds lo hanno chiesto esplicitamente. Ma ieri, raggiunto al telefono dal manifesto, anche Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd, dopo aver premesso che è «necessario isolare i violenti» in un movimento che si prepara ad «una sacrosanta stagione di conflitto sociale», ha ammesso che riguardo alla reazione «sproporzionata» della polizia non bastano le parole di Cancellieri. «Solidarietà  sì, ma occorre fare chiarezza su quanto avvenuto». In questo senso, precisa Orlando, «sia pur attraverso un confronto col sindacato di polizia, è necessario iniziare a ragionare su un codice identificativo che non esponga il singolo alla rappresaglia diretta, accessibile solo alla catena di comando».


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