Diffamazione, torna il carcere a voto segreto

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ROMA — Ore 18 e 35. Cade la maschera del Senato sulla voglia di carcere per i giornalisti. Complice il voto segreto chiesto dalla Lega e dai rutelliani, passa l’emendamento “trappola” del Carroccio che prevede «la reclusione fino a un anno» per la diffamazione a mezzo stampa. Votano a favore ben 131 senatori, 94 i contrari, 20 gli astenuti. Niente nomi, ma individuare la provenienza è facile: tra quei 131 ci sono di sicuro i 17 leghisti presenti a palazzo Madama, lo sparuto gruppo di Rutelli, ma pure pezzi consistenti del Pdl, dell’Udc e del Pd. Una trasversalità  evidente che vede nei giornalisti un nemico da punire non solo con multe fino a 50mila euro, ma pure con la galera. È una voglia così straripante che schiaccia anche Sallusti, di cui ormai non si ricorda più nessuno. Commenta a caldo la Fnsi: «È una pagina nera della democrazia per malpancisti forcaioli ». «È un harakiri politico» per Casini. «Un grave arretramento culturale del Senato» per il dipietrista Li Gotti. «Acido muriatico sui giornali» per Vizzini, il patron della legge elettorale.
A quell’ora — con l’agguato programmato sin da quando il ddl due settimane fa è arrivato in aula e l’ex sindaco di Roma e la Lega avevano chiesto subito il voto segreto — “muore” anche la legge. Lo ammette il presidente del Senato Schifani quando alle 19 sospende la discussione, come gli chiedono ormai tutti (il Pd Zanda, il Pdl Gasparri, l’Idv Li Gotti), e annuncia per oggi la conferenza dei capigruppo per verificare «se l’aula possa tornare a occuparsi della questione…». E lo ammette pure il capogruppo Pdl Gasparri quando interpreta il voto come l’emergere «della voglia di mantenere la legge attuale », cioè il carcere da uno a sei anni in caso di diffamazione. Metterla sul binario morto è ormai una necessità , visto che i voti segreti chiesti dalla Lega e dei rutelliani non sono ancora finiti. Essi potrebbero ripristinare l’interdizione fino a un anno, raddoppiare la pena in caso di recidiva, imporre l’obbligo di scalare l’importo della multa dai fondi dell’editoria, ma soprattutto potrebbero impallinare tutto il primo articolo della legge, il suo architrave, e quindi decapitarla inesorabilmente.
A questo punto cade anche l’ipotesi, perseguita riservatamente a palazzo Chigi dal governo, di intervenire con un decreto legge subito dopo il voto del Senato. Una mossa per applicare al direttore del Giornale Sallusti le norme contro il carcere, che ormai diventa impossibile perché un provvedimento d’urgenza, anziché trovare un puntello sul primo sì di un ramo del Parlamento, ne troverebbe uno contrario. Del resto, proprio il governo, col sottosegretario alla Giustizia Gullo, aveva dato in aula parere contrario alla proposta dei leghisti sul carcere.
Era un fulmine previsto e prevedibile quello della Lega, anche se il segretario Maroni lo ridimensiona tardivamente a «una provocazione per verificare meglio la legge». In realtà  in aula, e non da ieri, senatori come Castelli e Mazzatorta teorizzano che l’offesa all’onore non può essere ripagata da una multa, anche se elevata. E l’ex Guardasigilli accusa il Pd di non voler punire con la cella gli autori delle tante macchine del fango e arriva a ipotizzare che «proprio lo stesso Pd ne sia l’autore». I democratici si smarcano indignati con Zanda, Latorre, Chiti, Casson, Vita, tutti pronti a chiedere che la legge finisca subito sul binario morto. Quagliariello, Pdl, sembra non demordere, Berselli sostiene che comunque «la nuova sarebbe meglio della legge attuale, anche se non risolve il caso Sallusti». Cadono le ultime migliorie approvate, soprattutto quella di Vita sulle rettifiche «in 30 righe, con lo stesso rilievo e collocazione».


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