Il socialismo appenninico messo in crisi dal sindaco

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  Con tutto il rispetto per il successo di Pier Luigi Bersani sondaggisti ed osservatori continuano a interrogarsi sulla novità  politica delle primarie, l’ampio consenso fatto registrare da Matteo Renzi. Roberto Weber (Swg) pensa di essere riuscito nelle ultime ore a quantificare un dato interessante: il 15% dei voti per il sindaco viene da elettori di centrodestra e un altro 15% da seguaci di Beppe Grillo. La fascia è individuata tra 25 e 55 anni e molti di loro sono artigiani, commercianti e partite Iva. «In questi casi il voto per Renzi è l’espressione di un disagio delle categorie produttive nei confronti della sintesi politica che si è prodotta fin qui ed è una richiesta di discontinuità » sostiene Weber. Lo stesso tema ritorna nell’analisi dello sfondamento di Renzi nelle Regioni rosse. Dalla Toscana che gli ha tributato un’ovazione all’Umbria (44%) e le Marche (42%). Anche il dato emiliano (38%) è di assoluto valore e contribuisce ad aprire una riflessione sull’evoluzione sociopolitica di territori da sempre lodati per l’alto capitale sociale che sono capaci di produrre.
La domanda che il successo di Renzi rende attuale può essere formulata così: come mai l’alto capitale sociale non si è coniugato con un elevato tasso di ricambio? E ancora: nelle zone dove ha operato per anni la regia politica della sinistra si è prodotta una maggiore o minore apertura della società ? È chiaro che non si può rispondere con i numeri come quando si parla di flussi di voto, però l’impressione di molti osservatori è che nelle Regioni rosse si sia consumato un divorzio tra capitale sociale e innovazione. Il «socialismo appenninico» ha dimostrato una grande capacità  di stabilizzare la struttura sociale, di assicurare beni come qualità  della vita e coesione sociale ma sembra aver fallito nell’opera di assecondare il cambiamento.
La fenomenologia quotidiana ci parla di sistemi di micro cooptazione dall’alto, contesti nei quali l’azione delle amministrazioni accompagnata da soggetti di fatto collaterali (non con il partito ma con i sindaci e i governatori) quali cooperative, associazioni di categoria e sindacati, ha finito per ingessare la mobilità  sociale. La Lega Nord quando si era posta l’obiettivo di sfondare nell’Italia di mezzo aveva intuito che i vecchi schemi di consociazione non reggevano più. Aveva avuto sentore che — ad esempio — il mondo delle professioni, organizzato attorno a grandi famiglie che si tramandavano il mestiere e coltivavano ottimi rapporti con le giunte, non era più inclusivo nei confronti dei giovani avvocati, architetti o commercialisti. Il Carroccio poi ha privilegiato il tema immigrazione, non è parso credibile come driver di mobilità  e alla fine non ha trovato la combinazione per scardinare l’egemonia rossa.
Qualche risultato in più lo ha ottenuto Beppe Grillo che si presta meglio a dare rappresentanza agli outsider rimasti fuori dal sistema di cooptazione. Tutti gli esponenti grillini sono dei signor Nessuno che l’alleanza tra amministrazioni rosse e borghesie locali ha tenuto lontani dalla distribuzione di risorse e chance. Con Renzi queste dinamiche diventano più robuste e anche più intellegibili. Il sindaco non parte certo da outsider, è figlio delle élite fiorentine, viene dal cuore delle società  chiuse dell’Italia di mezzo ma il suo programma tende, almeno a parole, a destrutturarle, a rompere la consociazione. Chi lo ha seguito quando sente «rottamazione» traduce «ricambio», estende la promessa di azzerare i mandati dalla politica alla vita associata. E in questi anni a Bologna, Siena e Perugia e nelle altre piccole capitali del socialismo appenninico è cresciuta l’insofferenza degli esclusi ma non ha ancora trovato il veicolo giusto per imporsi. E un centrodestra incapace di leggere la società  è rimasto sempre in fuorigioco.
Nella storia dei rapporti tra società  e politica nelle Regioni rosse le analisi, come detto, si sono concentrate tutte sull’accumulazione di capitale sociale, quasi mai sul resto. Come mai la cultura della sinistra non è riuscita a mitigare i campanilismi dell’Italia di mezzo? E non stiamo parlando solo di quelli in stile Vernacoliere ma anche di altri capaci poi di condizionare le scelte strategiche delle giunte. In Emilia-Romagna il ruolo di Bologna capitale è contestato dalle altre Province e allora quando si è deciso di creare gli incubatori di innovazione (le Tecnopoli) si è finito per spalmarli con una logica da manuale Cencelli territoriale. Il caso limite di società  chiusa è considerato Siena. Come mai l’egemonia della sinistra non ha intaccato il sistema a matrioska che lega da sempre amministrazione pubblica, partito e Monte dei Paschi? Una visione da società  aperta avrebbe scisso il link, avrebbe evitato di confondere la competizione politica con il controllo di una delle principali banche italiane. In questa direzione sarebbe interessante, per capir meglio la scarsa circolazione delle élite, analizzare i percorsi di carriera della dirigenza rossa e il suo distribuirsi nei tre canali principali (amministrazione, partito, associazionismo).
In conclusione, però, è giusto dare a Cesare quel che gli spetta e ricordare come le comunità  dell’Italia di mezzo restino grandi contenitori di valori. Senza andar troppo lontano nel tempo basta pensare alla vicenda del terremoto che ha colpito il cuore dell’Emilia produttiva. In quella circostanza la forza del capitale sociale si è dispiegata davanti agli occhi del mondo, l’antropologia positiva del territorio ha sprigionato le sue potenzialità  e tutti ne siamo rimasti ammirati. Quando si tratta di resistere e ricostruire il socialismo appenninico si dimostra una straordinaria infrastruttura valoriale, è quando deve facilitare il ricambio che diventa afasico. E tutto ciò prescinderà  dalla carriera politica di Renzi.


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