OBAMA È UN’ALTRA MUSICA

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Le statistiche parlano chiaro. Se è vero che negli States c’è un’effettiva risalita nell’occupazione, che l’industria automobilistica è stata risanata e che si è cercato di modificare in meglio la sanità , è altresì innegabile che per la popolazione afroamericana il disagio economico e sociale è più feroce di quattro anni fa: molto più elevato il tasso di disoccupazione fra i neri, e così il numero di mutui degli immobili finiti in pignoramento o le attività  commerciali chiuse per fallimento. Chi sta peggio è chi stava male già  prima.
Sono da sempre gli afroamericani i più svantaggiati. In molti dei quartieri ad alta densità  nera mancano spesso mezzi, risorse e modelli, a volte i più elementari. È sconcertante il divario esistente nella qualità  dell’educazione scolastica offerta ai bianchi e ai neri. E fuori della scuola, tranne lo sport e la chiesa, non ci sono modelli significativi cui affidare le generazioni future, mentre quelli che i giovani assorbono dagli ambienti cui vengono esposti sono spesso manchevoli quando non aberranti, prodotti di una subcultura di violenza, di bieco sciovinismo e sfiducia totale nell’America circostante, che li lascia di proposito ai margini del tessuto sociale. Persino il diritto a un’alimentazione sana qui è un privilegio. Trovare frutta e verdura fresche nei supermercati, per esempio, è spesso difficile. Costano troppo, in pochi se le potrebbero permettere, inutile proporle. Si vendono in scatola, o alla meglio surgelate. Ciò che uccide l’afro America povera prima della violenza non è più la fame ma il diabete, l’obesità  da malnutrizione, l’ipertensione e l’asma.
I più poveri lo sostengono
Sono proprio gli afroamericani, però, a sostenere Obama. Sono in prevalenza gli stessi afroamericani poveri, della classe operaia, della piccola e media borghesia che, dotati o meno di senso critico, misero da parte il proverbiale cinismo di un popolo schiacciato da quattrocento anni e andarono alle urne quattro anni fa, riponendo in quel voto la speranza di un riscatto e che Obama si facesse paladino dei loro diritti. E sono gli afroamericani intellettuali, gli artisti e gli attivisti politici, che già  allora sapevano bene che sarebbe cambiato poco. 
Don Palmer, critico musicale e artistico, giornalista ed ex Presidente dell’Individual Artist Program al New York State Council of the Arts, mi raggiunge per telefono da Baltimora. «L’elezione di un presidente nero è stata storica, certamente. Credo che abbia profondamente animato la popolazione afroamericana, ma penso anche che si sia esagerato con la narrazione del post-nero e del post-razziale. È solo un uomo, e anche piuttosto eccezionale. Ma la sua elezione non avrebbe potuto cancellare quattrocento anni di storia. Detto questo, Obama ha deluso l’elettorato nero, le cui aspettative erano troppo alte».
Greg Tate, scrittore, musicista, fondatore della Black Rock Coalition e leader della band musicale Burnt Sugar, aggiunge ironico in un’e-mail che mi scrive da Harlem, impossibilitato a raggiungermi a Brooklyn in questi giorni di quasi totale isolamento nella città  catturata da Sandra, come lui insiste a chiamare l’uragano: «Per molti Obama è irreprensibile. Mi è capitato di sentire gente di strada difenderlo contro i tentativi dei repubblicani di incolparlo per i fatti di Bengasi. L’idea di Obama fa ancora sì che l’America nera sia rappresentata positivamente in un mondo bianco generalmente ostile. Sondaggi mostrano che gli americani bianchi esprimono più apertamente ora che non prima dell’elezione di Obama i sentimenti negativi verso i neri. Come dice il mio amico Vernon Reid: “Obama non ha introdotto un’era post-razziale ma una molto-razziale”. E poiché la politica razziale è il punto più importante per i neri americani, l’unica cosa che Obama deve fare per non deluderci collettivamente è rimanere nero e sposato con Michelle».
Sappiamo che Obama avrebbe perso senza il voto dell’afro America, quella borghese cristiana, orgogliosa, indipendente e dai grandi valori morali e spirituali, quella scoraggiata o inferocita dei ghetti, e quella intellettuale, iconoclasta, brillante e provocatrice dell’intellighenzia accademica e artistica, così come sappiamo che soltanto con esso non avrebbe vinto. Ecco che in questo dato di fatto prende corpo la sua controversa affermazione durante il Discorso sulla Razza, che la sua America, l’America che lui amava, non era l’afro America ma l’America tutta. Quel discorso fu probabilmente il momento cruciale nella sua campagna. Nonostante la sua negritudine, ecco che accoglieva in toto l’esperienza americana. I liberali applaudirono. La sinistra nera, però, si arrabbiò. Ma qual era la speranza? Che un presidente nero si prendesse cura della “sua” gente? 
Pretendere che Obama si preoccupi dell’afro America più che del resto del Paese solo perché è la “sua gente” significherebbe allora condonare a Bush l’essere stato il burattino della classe dominante americana per otto anni. Un presidente deve occuparsi di tutto il suo popolo e in misura maggiore di chi ne ha più bisogno. E però deve farlo.
In quello stesso discorso, perlomeno lo promise. Dichiarò apertamente che la discriminazione non è una fissazione degli afroamericani e che la comunità  bianca deve riconoscerlo perché «l’unione sia perfetta». E bisognava allora affrontare la piaga non solo a parole ma nei fatti, «investendo nelle nostre scuole e nelle nostre comunità , rafforzando i nostri diritti civili e assicurando correttezza nel nostro sistema giudiziario». Così da dare alla generazione successiva opportunità  inesistenti per quelle precedenti. La metafora usata fu appunto la scala sociale, da salire con dignità , un diritto di tutti gli uomini e donne di buona volontà  in una società  meritocratica ma che, in quell’America che Obama ama, è ancora un privilegio dei bianchi. Ricordò nel frattempo ai neri che era loro compito affrancarsi dallo storico ruolo di vittime. Chiamò all’appello i padri assenteisti, figure essenziali nella crescita dei figli, reiterò l’importanza del coinvolgimento dei genitori nell’educazione scolastica. E che stava a loro, alla «sua gente», di «non soccombere alla disperazione e al cinismo».
La retorica era quella classica americana, figlia della periclea greca, proprio quella adatta a celebrare il common man cui il grande Aaron Copland dedicò la sua eroica Fanfara. Ma è innegabile che sia vero per un popolo quel che lo è per il singolo, e cioè che spesso la volontà  e la determinazione non bastano a creare un’ampia visione del futuro quando il modello circostante è carente o assente. La storia afroamericana ha radici nella schiavitù, e dopo la sua abolizione, ricorda il costante esercizio di piegamento e umiliazione di questa gente, attraverso lo strangolamento economico e dunque l’isolamento sociale: la discriminazione sul lavoro, nel mercato immobiliare, dai tempi in cui attraverso la violenza le si impediva di acquistare beni immobili, fino ad arrivare al congelamento dei prestiti bancari negli anni ’70; il divieto al voto, la segregazione. Lo stesso Obama ricordò questi abusi. Io cito invece l’esempio del Tulsa Race Riot del 31 maggio e il primo giugno del 1921, quando a Tulsa, in Oklahoma, il fiorentissimo distretto afroamericano di Greenwood, soprannominato Black Wall Street, fu raso al suolo da bianchi. Persero la vita centinaia di persone, 10 mila rimasero senza tetto, le case di 1.256 residenti furono bruciate. E 6 mila residenti di Greenwood vennero arrestati.
Impedire così a una fetta della popolazione di conquistarsi una voce che non sia quella del dissenso continuo, che si esprime alla meglio in eroici esempi di resistenza politica, intellettuale e artistica, in accese oratorie e alla peggio nella violenza, nell’abbrutimento e nell’abulia dei ghetti. Chi, in mezzo, cerchi di entrare nella piccola e media borghesia o, negli ultimi anni, di mantenere il proprio posto in una classe operaia che è da sempre la spina dorsale del paese, osannata da tanta letteratura e cinema celebrativi del common man, si trova in bilico su di una scala sociale i cui pioli si spezzano sotto i piedi a ogni deciso, incerto o rabbioso passo verso l’alto mentre tutti intorno scommettono sulla sua caduta. La stessa nonna di Obama, mentre lo allevava con affetto, non nascondeva la sua paura dell’uomo nero né si frenava dal pronunciare cliché che offendevano il presidente. Non riconosceva in lui la sua negritudine come un valore? Certo che no. 
J.T. Lewis, afroamericano, batterista e co-leader delle band musicali Harriet Tubman e Socialybrium, rileva: «Obama non è un bianco con padre nero, ma un nero con madre bianca. Basta un solo genitore nero per essere neri in questo paese, e cancellare per sempre quello bianco». E nel caso di Obama e degli altri mixed come lui, si tratta poi, per tutta la vita, di scegliere dove stare. E come starci. Ma in questo paese è impossibile scegliere di essere semplicemente esseri umani. Si incapperebbe in dolorose contraddizioni di non facile risoluzione, ci si sentirebbe come l’elefante nella stanza, a un passo dalla miccia pronta a scoppiare. Anche perché è sottinteso che il modello esemplare di essere umano da emulare, che dovrebbe essere incolore, sia invariabilmente molto vicino alla gradazione di bianco. 
Black power, non Colin Powell
L’afroamericana Angela Davis, scrittrice, docente universitaria, attivista politica, femminista, ex combattente nelle Pantere Nere e una delle maggiori esponenti del Movimento per i diritti civili degli anni ’60, in un’intervista rilasciata all’opinionista Gary Younge durante la prima campagna elettorale di Obama, rifletteva: «Abbiamo un numero maggiore di neri in posizioni di potere. Ma nel contempo ce ne sono troppi di più che sono stati spinti in fondo alla scala sociale. Quando il popolo reclama la diversità  per associarla alla giustizia e all’eguaglianza, è un bene. Ma c’è un modello di diversità  che si pone come la differenza che non fa la differenza, il cambiamento che non apporta alcuna modifica». Si riferiva a Condoleezza Rice e Colin Powell, che erano riusciti a salire molto in alto nella gerarchia del potere, ma un potere bianco coercitivo, che non aveva niente di valore da offrire al mondo nero. E la domanda rimane pertinente anche in questo contesto: se «il cambiamento è possibile» non collettivamente ma solo per i più tenaci, e per ogni persona che riesca a «superare se stessa» e per premio le si apra una porta da un mondo altrimenti chiuso, ce ne sono cento che volenti o nolenti cadono dalla scala a pioli, soprattutto in un’economia disastrosa come questa degli ultimi quattro anni, è legittimo abbandonarsi una volta ancora alla disperazione e al cinismo? 
Continua J.T. Lewis: «Si presume che l’educazione scolastica, la cultura e le opportunità  non trasformino in pensatori radicali che rimangano se stessi, profondamente neri ma comunque sia americani, colti, propositivi, integrati ma non bianchi. Ci si aspetta invece che ci si arrenda e si sia contenti, non arrabbiati». Ci si aspetta di venire assimilati, cancellati. «La verità  è che non si può essere neri senza essere arrabbiati, ma è cosa si costruisce con quella rabbia che fa la differenza».
La disillusione di tutti 
Greg Tate, Don Palmer e Angela Davis non si fanno grandi illusioni per i prossimi quattro anni. Tutti e tre sono rimasti delusi dalle decisioni di Obama riguardo la guerra in Afghanistan. Greg Tate elabora: «Mi ricordo che parlavo a un gruppo di studenti dell’università  di Yale prima delle elezioni, di quanto fossero pessimiste le mie previsioni riguardo all’effettivo potere della presidenza di Obama di cambiare l’America che avevamo conosciuto con Bush. E considerando quanto poco sia cambiato riguardo alla politica estera, oggi aggiungerei solo che se verrà  rieletto, e mi aspetto che lo sia, dovrebbe essere in grado di introdurre dei programmi nuovi che spero incrementeranno le opportunità  educative, tecniche e lavorative per la classe operaia afroamericana, soprattutto per gli uomini». E Don Palmer: «Credo che Obama sia stato sincero e cauto, un moderato pragmatico. La riforma della sanità  è stata enorme, e credo che con quella continuerà  ad andare avanti. Vedo altri quattro anni di compromessi e manipolazione del sistema politico ed economico per fare piccoli progressivi passi e affrontare i problemi dell’ambiente, l’ineguaglianza, l’immigrazione, e i disordini nel mondo. Sarà  radicale? No, perché non credo che lui sia un socialista, un radicale di sinistra, o il Presidente Nero. Che vi piaccia o meno, il primo presidente nero degli Stati Uniti è il presidente di una nazione intera e non di una sola fascia della popolazione». 
Angela Davis ricorda che l’elezione di Obama, storicamente, è stato un evento straordinario ma era destinata a deludere. Perché raccoglieva l’entusiasmo per un uomo in un’America che rimane imperialista. Ci sono state però cose che Obama aveva promesso di fare e che ancora non ha fatto, come la chiusura di Guantanamo Bay. Ma c’è da dire che non c’è stato un forte dissenso. 
Da una Manhattan ancora parzialmente disabile dopo l’uragano Sandy mi raggiunge al telefono Lawrence D. “Butch” Morris, musicista, compositore e direttore d’orchestra. Gli avevo chiesto cosa si aspettasse dalle prossime elezioni un pomeriggio della settimana scorsa quando ero andata a cercarlo, preoccupata perché non rispondeva al telefono. ma tra l’andirivieni di vicini premurosi che recavano cibo, candele o richieste e la sua impeccabile ospitalità  anche nel rovescio di un uragano, in cui versando il tè a tutti rispondeva ai bisogni dei vicini, non c’era stato tempo per scrivere la risposta. Tornate le luci nella città  dei desideri, mi ha chiamato. «Sì, voglio che il presidente degli Stati Uniti, il signor Barack Hussein Obama, vinca queste elezioni».


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