Sette giorni nel Giardino dell’Eden

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La cosa, comunque, non ha grande importanza. Il tempo, in quel luogo unico, separato dal mondo, ha una dimensione completamente diversa dalla dimensione occidentale del tempo. E questo, non perché il suo calendario non è quello occidentale e le lancette degli orologi sono spostate rispetto alle nostre di molte ore; ma per la ragione, assai più profonda, che ha a che vedere con un archetipo, altrettanto misterioso, che alberga nel cuore dell’uomo: l’idea irraggiungibile della permanenza del tempo, al confine con il tempo che non si misura.
Sul Monte Athos, nella Penisola Calcidica lunga una ottantina di chilometri e non più larga di dodici che si tuffa in uno dei mari più belli che si possano immaginare, il tempo sembra non esistere (dunque obbedire al nostro desiderio di permanenza), perché la vita che vi si svolge — fatte salve le elementari e irrilevanti conquiste del progresso — è una vita che si ripete, come le preghiere che notte e giorno recitano i suoi monaci (inchinandosi anche millecinquecento volte nelle ventiquattro ore); è ferma immobile; e, nella sua immobilità , si ripropone all’infinito — comunicando a chi per la prima volta approda alle sue sponde una sensazione di vertigine.
La leggenda narra che Maria e san Giovanni Evangelista, in viaggio verso Cipro per andare a trovare Lazzaro, furono scaraventati da una terribile tempesta nella zona in cui attualmente sorge il monastero di Iviron. La ammirazione per la bellezza del luogo fu tale che Maria chiese al Figlio di farle dono di quella terra. Allora, dall’alto si udì una voce che diceva: «Che questo giardino sia tuo e sia tuo paradiso e per tutti quelli che qui cercheranno la loro salvezza». È un paradiso il Monte Athos, una copia del Giardino dell’Eden quale possiamo immaginarlo? Dominato in fondo dalla cuspide alta duemila metri della montagna che dà  il nome alla penisola, ha fiori, piante e alberi di ogni tipo; boschi; acqua sorgiva purissima che sgorga dalle rocce, feconda i campi e viene offerta (gelata) in un bicchiere ai visitatori, insieme a un cucchiaino di marmellata, in segno di benvenuto; prati morbidi; mare ovunque. Le automobili praticamente non esistono: i mezzi di trasporto più usati sono le gambe, i muli, le barche (e talvolta dei veloci gommoni, con monaci in piedi e veli neri al vento). Il silenzio è talmente perfetto che a volte il mormorio delle preghiere si può udire a centinaia di metri di distanza. La notte, i cieli si toccano.
Dunque, è un Giardino dell’Eden. Sì. Allora, perché il viaggiatore moderno spaesato, che inevitabilmente «lo vede da fuori», in un primo tempo ha qualche dubbio e si chiede che cosa manca alla sua perfezione? Forse la figura femminile, la donna, alla quale l’accesso è rigorosamente interdetto, benché il Monte Athos sia dedicato alla madre di tutte le donne, vale a dire la Madonna? Può darsi; ma non è quello. Allora, cosa?
Lo scoprii alla fine di una intensa settimana di soggiorno in quel luogo incantato nel quale, sei anni fa, ero arrivato insieme a due amici e a un giornalista greco che ci faceva da guida, partendo — proprio come Zaitsev — dal porticciolo di Ouranopoli (oltre il quale comincia la repubblica monastica indipendente dell’Athos, governata dai venti abati dei venti più importanti monasteri), in una luminosa mattina di maggio.
Era stata una settimana meravigliosa. Sul Monte Athos, oltre ai venti monasteri risalenti alcuni addirittura al X secolo — di tutte le nazioni ortodosse (greci, bulgari, russi, serbi, romeni), un tempo abitati da migliaia di monaci, oggi da poche decine — esistono le skiti, le celle, le kalivie e gli eremitaggi. Gli eremitaggi sono delle caverne o delle capanne situate in posti inaccessibili, in cui vivono gli eremiti; le kalivie sono composte da una casetta e da una cappella; le celle sono come delle fattorie autonome nelle quali due o tre monaci producono grano, olio, vino; le skiti sono un insieme di case raggruppate attorno a una chiesa importante. Noi eravamo stati tre giorni ospiti in una skiti, governata dal monaco Spiridione; quattro giorni in una cella di bellezza stratosferica sulla riva del mare, adiacente a una vigna dalla quale il monaco Epifanio traeva ogni autunno circa 40 mila bottiglie di ottimo merlot. Dalla skiti, essendo a trecento metri d’altezza, c’eravamo potuti spostare poco e solo a piedi, ovviamente.
Ricordo bene Spiridione. Era corpulento e, coi suoi sei monaci, severo. Ci precedeva in quei sentieri impervi senza nessun problema per la tonaca che gli arrivava alle caviglie; ogni tanto indicava il panorama oppure coglieva un fiore e l’annusava, si voltava e, in francese, esclamava estatico: «C’est le paradis!». Severo e inflessibile coi suoi monaci (e con noi tre) quanto a orari liturgici e consumazione dei pasti (una botta alla porta ci buttava giù dal letto alle quattro per il mattutino, a tavola bisognava mangiare tutto le quattro volte che ci si sedeva attorno: per la colazione, il pranzo, la merenda con torte e la cena), Spiridione era anche curioso. Una volta, con la scusa di mostrarci gli eremi, ci aveva portati fino al bordo dell’acqua, in un posto da favola, nel quale un monaco russo dava ordini perentori a operai albanesi impegnati nella costruzione di una casa che non era cella né kalivia, bensì assomigliava a una sontuosa villa, e aveva voluto vedere dentro com’erano i pavimenti, i bagni, le cucine. Ma a chi era destinata quella sontuosa magione? — gli avevamo chiesto esterrefatti. «Putin» aveva sussurrato, alzando gli occhi al cielo. C’era da credergli? Chi lo sa! Risalendo, gli eremiti ci avevano offerto acqua e miele.
Era l’ultimo giorno alla skiti. La mattina seguente c’eravamo trasferiti da Epifanio. Da lì, ci si poteva muovere agevolmente. Quindi — come Zaitsev nel suo libro — avevamo girato in lungo e in largo per monasteri e scoperto tesori inenarrabili (ori, icone, vetri, alabastri) in quei conventi immensi, costruiti come fortezze per difendersi dagli attacchi dei pirati, dei franchi e dei saraceni, nei secoli accresciuti da tocchi mitteleuropei. Come Zaitsev, eravamo stati ricevuti in parlatori elegantissimi, alle cui pareti erano appesi ritratti e foto di imperatori, metropoliti e granduchi. Avevamo percorso corridoi interminabili, ascoltando il suono dei nostri passi in quel silenzio rarefatto. Eravamo entrati in biblioteche di migliaia e migliaia di volumi. Avevamo visto: un dito della mano di sant’Anna, il teschio di san Basilio, vari altri frammenti di ossa e pelli incartapecorite custoditi in teche preziose — e perfino la croce (la più improbabile delle reliquie, essendo tutta in oro) che avrebbe inalberato Costantino nella battaglia di Ponte Milvio. Eravamo passati dalla luce al buio delle chiese. Avevamo assistito alla liturgia di tutte le ore: quel salmodiare interminabile il cui scopo non è soltanto la lode di Dio, bensì l’annullamento della mente nel cuore. Avevamo lasciato i monaci sulla soglia delle loro celle, dove avrebbero continuato a pregare in solitudine, curvi e scomodi, come prescrivono Niceforo l’Athonita e Gregorio il Sinaita: perché la preghiera deve essere fatica, umiltà , cancellazione di ogni desiderio e di ogni pensiero, cancellazione di se stessi, altrimenti Dio non entra nel cuore.
Eravamo tornati alla luce sfolgorante dei boschi, del cielo, del mare. Segretamente, ci eravamo interrogati su quello splendore che a tratti ci pareva inutile, sul tempo immobile, sulla pace che ci veniva proposta di continuo e alla quale non riuscivamo ad attingere, su quella perfezione che ci sfuggiva, alla quale mancava, per essere perfetta, qualcosa che non sapevamo dire. E adesso dovevamo partire.
Prima, però, la nostra guida ci voleva far conoscere un giovane amico, monaco al monastero di Iviron, con una storia incredibile alle spalle. «Che storia?» domandammo. Disse che ce l’avrebbe raccontata in un secondo momento. Dunque abbandonammo la cella che ancora non era l’alba e arrivammo a Iviron. La liturgia era in pieno svolgimento. Dentro la chiesa, profumata di incenso, l’oscurità , rotta appena dalle candele, era tale che non si riuscivano a distinguere i monaci nei loro stalli addossati al muro. Ogni tanto qualcuno si staccava o si genufletteva: sembravano fantasmi. Intanto, il sole saliva dal mare. Alle sette la funzione era finita. Uscimmo. Di fronte a noi si vedeva l’isola di Samotracia.
«Andiamo», disse il giornalista greco e ci condusse, fuori dal recinto del monastero, in una casetta a due piani, con un camino e una terrazza protetta da una pergola. Il suo amico ci venne incontro. Non avevo mai visto un uomo così bello: magro, capelli neri come il carbone, lineamenti perfetti, due straordinari occhi verdi smeraldo. Sorrideva. Ci fece accomodare e ci offrì sigarette e caffè. Poi cominciò a parlare: con un tono mondano, ammiccante. Raccontava dell’orto, che curava personalmente; chiedeva notizie dell’Italia; si informava di quali libri stessimo leggendo: sempre con quel sorriso allegro sulle labbra. E senza fermarsi mai: come se temesse qualche domanda. Finalmente lo salutammo e montammo sulla jeep. Dopo pochi chilometri, il giornalista greco raccontò la sua storia. Quell’uomo era stato pure lui giornalista: in un importante quotidiano ateniese. Amava una ragazza, perdutamente, e la sposò. In viaggio di nozze andarono a Samotracia. Erano felici. Poi, un giorno, lui ebbe l’idea di farle delle fotografie. Voleva lei e il mare immenso alle spalle. Nient’altro. Ma l’inquadratura non era perfetta. Allora, con l’occhio all’obiettivo, le suggerì di fare due passi indietro. Lei scivolò, perse l’equilibrio e precipitò nello strapiombo. Lui impazzì. Quindi, dopo un anno in cui era ridotto a una larva, parlò con un monaco che gli disse: «Vieni al Monte Athos». Ci andò e scelse Iviron: perché da lì, in ogni momento, poteva guardare Samotracia. Tutto qui.
Avevo la pelle d’oca. E per un’ora rimasi muto. Continuavo a rivedere quegli occhi smeraldo, quel sorriso allegro dietro al quale si era difeso. Così arrivammo al vaporetto e salpammo. La penisola si allontanava. La guardavo. In silenzio ripetevo la giaculatoria che lì dicono tutti, fino allo sfinimento: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà  di me». Non smettevo di vedere quegli occhi e quel sorriso. E pensavo che sì, il Monte Athos era un Giardino dell’Eden, come può essere un Giardino dell’Eden abitato dagli uomini, perché la sua luce nascondeva il dolore.


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