Storia di amore e comunismo

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Emma ha continuato a scrivergli per anni, come se le sue lettere potessero oltrepassare ogni barriera, anche quelle impossibili. Prima la galera, poi il confino, ora perfino la morte. Così era stato nella loro giovinezza, i sedici anni vissuti nella separazione, tra il 1927 e il 1943, Giulio prigioniero del fascismo ed Emma costretta a lunghe peregrinazioni pur di vederlo venti minuti su una panca. Fu allora che Emma imparò a riempire i vuoti con le parole scritte, a tradurre la danza degli occhi in pezzi di carta vistati dal censore. Il codice verbale aveva le sue regole inderogabili, gli scatti in avanti e le frenate, le accensioni e le pause, proprio come il linguaggio del cuore. E a quello Emma non rinunciò neppure dopo il 1974, l’anno della scomparsa di Giulio Turchi, l’operaio metallurgico divenuto nel dopoguerra deputato del Pci. Una lettera quasi quotidiana, per sentirselo ancora vicino. Finché un giorno accade un fatto incredibile, che nessuno poteva presagire.
Nel marzo del 1981 arriva ad Emma una lunga «lettera d’amore». L’ha scritta Giulio quasi mezzo secolo prima. Un diario annotato a Ponza tra il dicembre del 1938 e il marzo del 1939, forse il periodo più difficile della sua vita di detenuto: alle spalle già  undici anni di carcere, e in avanti solo prospettive confuse. Ma adesso da confinato poteva disporre d’un quadernino, dove mettere ordine tra i sentimenti, soprattutto confessare liberamente le proprie emozioni senza timore di uno sguardo estraneo. Per lui Emma era tutto, fonte di vitalità  e bussola morale. Emma così estroversa e appassionata, lunarmente distante dal suo temperamento schivo, a tratti brusco. La sua dedizione lo smuoveva nel profondo. Era disposta a tutto, pur di sostenere il compagno in galera, anche a far da cameriera alle signore dell’ambasciata sovietica. Quel breve scritto voleva essere un risarcimento, un ripagarla per il suo affannarsi senza mai un lamento. Ottanta pagine vergate con grafìa fitta e minuta, un gesto d’amore per la moglie bruscamente interrotto dal sequestro del quaderno, mai più restituito e per mezzo secolo rimasto sepolto negli archivi. Nessuno in famiglia ne sapeva niente. A ritrovarlo sarà  l’Associazione dei perseguitati politici, che nell’81 ne fece dono a Emma. Ma l’unica a non sorprendersi fu ancora una volta lei. Come se in fondo l’aspettasse da sempre.
Ora questo diario è diventato un libro, con la postfazione di Gioia Turchi, la figlia di Emma e Giulio che su sollecitazione della sua secondogenita ha reso pubbliche le carte (Emma. Diario d’amore di un comunista al confino, a cura di Gianfranco Porta, Donzelli). Quello di Giulio Turchi è un memoriale che s’aggiunge alle tantissime testimonianze sulla galera fascista, ma distanziandosene per la sua intonazione esclusivamente sentimentale. Non è un trattato di «psicologia carceraria», come Vittorio Foa amava definire i suoi scritti, né un affresco di quella condizione che Massimo Mila efficacemente sintetizzò come «un sipario calato sulla vita». La politica scivola sul fondo, anche la solidarietà  tra detenuti non è preoccupazione urgente. Ciò che prevale è la pulsione del cuore, viaggio anche spericolato dentro le caverne intime della passione. Il turbamento costante di una «vita non vissuta» ma solo pensata. L’attesa febbrile di lei. La tensione erotica durante i colloqui in galera. Il maremoto procurato dagli incontri mancati. E poi l’emozione nel ritrovarsi, la felicità  procurata dalla convivenza alle Tremiti, la paura di sperimentare il sogno lungamente inseguito e l’esplosione sessuale che sigla quell’unione. Infine lo strazio della separazione. Frammenti di un discorso amoroso che il detenuto ricompone nella solitudine del suo confino, per ricompensare la sua compagna e trarne linfa per un futuro incerto.
S’erano conosciuti nel 1925, Giulio ed Emma, lui un operaio comunista di ventitré anni che aveva partecipato all’occupazione delle fabbriche e ora guidava la federazione romana, lei una sarta appena diciottenne, però già  vigorosa e piena di vita. Per lui fu amore a prima vista, la desiderava come «amica e amante» — già  uniti dal comune impegno nel partito — e da subito partirono le lettere, cerimoniose al principio, poi sempre più confidenziali. Una passione di carta destinata a durare quasi vent’anni, oltre mille le lettere scritte da Giulio per la sua Emma detta anche “Mina” o “Emmina”. Nel maggio del ’26 le nozze, solo pochi mesi di vita in comune, forse non  abbastanza per conoscersi a fondo. Poi l’arresto di Giulio e la condanna del Tribunale Speciale a ventuno anni di reclusione. Lui la prega di «riprendere tutta intera la sua libertà », la vita con lui era «un punto interrogativo» e il tribunale le avrebbe accordato «l’annullamento del matrimonio». Lei lo ringrazia per l’offerta, che respinge tra le lacrime. La loro storia era stata interrotta quando forse doveva ancora cominciare.
Per misurare il loro amore dovranno aspettare ancora dieci anni. Accadde alle Tremiti, dove Giulio venne confinato nel maggio del 1937. Emma ottiene il permesso di stare con lui qualche giorno. Il suo arrivo nell’isola è preceduto da grande trepidazione, insonnia e rabbia verso il chiacchiericcio degli altri confinati. Giulio non sopporta che i suoi compagni riducano tutto a «orgia sessuale» dopo prolungata astinenza. Lui sa — e lo sa più di lei — che quell’incontro è una prova definitiva della loro unione. La mattina dell’11 giugno va ad aspettarla sul moletto del porto, poi sale sulla barca che s’accosta al piroscafo. Un lungo silenzio, solo occhi che si cercano. Poi
quella «fusione» che non c’era mai stata prima, «l’abbandono totale del corpo e dell’anima, senza reticenze e senza scrupoli», «la libertà  che non avevamo mai avuta». È la svolta interiore che segnerà  le loro vite. Ed è questo incontro la scena-chiave del diario meticolosamente annotato da Giulio, che Emma sfoglierà  quasi cinquant’anni più tardi.


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