La strategia del pentagono

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Diventerà  un classico del pensiero strategico. La tesi, in tre punti: a) la flotta oceanica che l’imperatore Guglielmo sta allestendo è un fattore che altera l’equazione globale di potenza su cui si fonda l’egemonia britannica; b) mentre si dota di quest’arma strategica e nel popolo tedesco prolifera il sentimento espansionista che vorrebbe spingere la Germania sul trono del mondo, Berlino proclama tuttavia la sua volontà  di pace; c) pur ammettendo la buona fede della cancelleria tedesca, è imperativo per il governo di Sua Maestà  prepararsi alla guerra, giacché essa non dipende dalle intenzioni del Kaiser ma dalla costruzione di una flotta capace di sfidare il dominio britannico sui mari.
Sette anni dopo, Germania e Gran Bretagna si dissangueranno nella prima guerra mondiale, prologo alla distruzione dell’egemonia europea sul resto del pianeta.
Questo esempio di bellicismo semiautomatico – nella logica di guerra non contano le intenzioni politiche, ma le capacità  militari – viene oggi brandito dai teorici americani del contenimento della Cina. Con gli Stati Uniti nella parte della Gran Bretagna e la Cina reincarnazione del Secondo Reich.
Tale corrente di pensiero, minoritaria ma influente, centrata sul Pentagono e su alcuni think tank affiliati, drammatizza l’ascesa in potenza dell’Esercito popolare di liberazione per trarne l’urgenza di contrastarla rilanciando: più armi e più soldati nell’Asia-Pacifico, d’intesa non solo con i pochi alleati, ma con i molti attori regionali che temono la Cina e invitano Washington a limitarne le ambizioni. A cingere Pechino con una cintura di castità  geopolitica che ne soffochi le velleità  espansive.
A mettere in guardia sul possibile prevalere a Washington di un’isteria da “pericolo giallo”, alimentata dal trionfalismo dei neonazionalisti di Pechino e dal rafforzamento dello strumento militare cinese, è Henry Kissinger. L’ultimo capitolo del suo On China, monumentale e simpatetico studio della strategia cinese, s’impernia sull’attualità  del memorandum Crowe: “La storia si ripete?”, è la domanda retorica di Kissinger. La risposta è che, scontati i differenti contesti storici, il rischio esiste. Perché la “scuola di pensiero Crowe” postula che “una vittoriosa ‘ascesa’ della Cina sia incompatibile con la posizione dell’America nel Pacifico e per estensione nel mondo”. Peggio: “neoconservatori e altri attivisti” della suddetta scuola sommano al meccanicismo militarista il dogma ideologico per cui “le istituzioni democratiche sono il prerequisito delle relazioni di fiducia e confidenza” fra Stati. Tradotto: bisogna rovesciare il regime comunista e installare a Pechino un governo amico. (…)
Nella storia non era mai accaduto che le prime due potenze mondiali fossero tanto eterogenee e reciprocamente diffidenti quanto strutturalmente interdipendenti. Né che dovessero navigare a vista in un ambiente così dinamico, semianarchico. Per Cina e Stati Uniti tutte le opzioni restano aperte. Anche la co-evoluzione, surrogato kissingeriano del G2, per cui “entrambi i paesi perseguono i loro interessi, cooperando dove possibile, e adattando le loro relazioni per minimizzare il conflitto”. Forse non il migliore dei mondi, ma il massimo di cogestione possibile. Certo la meno improbabile alternativa alla catastrofica collisione di due giganti ancora troppo autistici per capire quanto avrebbero da guadagnare se, in omaggio al proverbio cinese “imbandisci un banchetto che non si scioglie mai”, elevassero il confronto a convivio.


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