Martini, un sogno a occhi ben aperti

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Il «discernimento», scrive Martini richiamandosi alle parole di Giovanni Paolo II al convegno di Palermo, è certo anzitutto personale ma anche comunitario, risultato di un dialogo che non appanna le differenze individuali, ma le arricchisce in un’integrazione reciproca.
Nelle pagine di questo libro, come in tutta l’opera e la vita di Carlo Maria Martini, emerge, fra i tanti problemi radicali che esse affrontano, il nesso drammatico ma saldo fra la solitudine dell’individuo così spesso angosciato dinanzi alla morte e alla sofferenza e il senso della sua appartenenza, pur spesso offuscata e travagliata, a una comunità  â€” dalla cerchia dei legami personali alla sfera del lavoro, dalla città  al Paese, all’umanità  e, per Martini, a quella Chiesa universale che, prima di essere un’istituzione religiosa, è la coralità  del genere umano in Dio, conosciuto o non conosciuto. Probabilmente sono stati anche gli studi biblici, dei quali egli è maestro, ad aver dato a Martini questo sentimento fortissimo dell’uomo, da un lato perduto nell’ansia, nell’ingiustizia e nella sofferenza e dall’altro inserito in un tessuto universale, che gli permette di chiamare qualcuno anche dal profondo della paura.
Le pagine di Martini conoscono il «buco nero» dello smarrimento non meno di quanto lo conoscano i profeti del nichilismo, ma non ne fanno un idolo, un assoluto negativo in cui intellettualmente può anche essere comodo rifugiarsi. C’è in queste pagine pure un senso acutissimo della Città , ossia della Civitas, della civiltà , del cammino comune degli uomini, colto nelle sue spesso tragiche contraddizioni e difficoltà  eppure mai perso di vista. Quello di Martini, ha scritto padre Sorge, è un «pensare in grande».
La diocesi diventa allora una polis, la città  di tutti gli uomini e del loro bene comune nella dialettica dei diversi orientamenti, progetti e interessi; un modello di società  civile che costruisce «un suo ethos (…) vissuto nella quotidianità » e aperto a comunità  più ampie. Non è un caso, ad esempio, che in queste pagine si proclami strenuamente la necessità  di un’Europa realmente unita, nella consapevolezza che l’autentica unione non è negazione delle diversità , bensì loro salvaguardia. Così le Chiese locali vengono chiamate a un «cordiale radicamento» nelle diverse culture in cui operano, distinguendosi nettamente da ogni loro organizzazione politica e aiutandole a capire che la propria identità  non è mai astiosa e asfissiante chiusura. Evangelizzare la Città , il Paese, l’Europa, il mondo non significa in primo luogo convertire, bensì gettare — come nella parabola del seminatore — nei cuori degli uomini e nel meccanismo delle istituzioni i semi evangelici di questo consapevole valore della vita condivisa. Il credente — che secondo Martini deve sempre ascoltare quel non credente che c’è pure in lui come in ogni uomo — è chiamato ad essere soprattutto «pensante», sottolinea Martini, citando Norberto Bobbio da lui molto amato, ossia a rendersi conto delle difficoltà  con cui l’amore cristiano deve confrontarsi, specie in un’epoca di sconcertanti cambiamenti, ora liberatori ora distruttivi.
Uomo di confine, l’ha definito Massimo Cacciari. Come ogni vero uomo di confine, Martini sa capire quando i confini vanno oltrepassati e quando vanno difesi, quando bisogna essere un passeur e quando bisogna essere una sentinella. Come i suoi predecessori Ambrogio o Carlo Borromeo, Martini è «defensor civitatis» e in questa difesa dell’umano rivendica il grande ruolo della cultura e specialmente di quella classica, che non è raffinatezza antiquaria, bensì, insieme alla Bibbia, fondamento della nostra civiltà  e intelligenza dell’umano, nient’affatto contrapposta ai saperi scientifici che mutano il mondo e la visione del mondo ma capace di guardarli senza paura e senza idolatrie e di dar loro un senso. Questa cultura, basata sulla terribile sapienza greca e sull’insuperata arte di governo dell’antica Roma oltre che sulla Bibbia, non si oppone ad alcun più modesto ma autentico sapere di chi non ha avuto possibilità  di dedicarsi a profondi studi, bensì a quella che i tedeschi chiamano «Halbkultur» (letteralmente «mezza cultura», ma sarebbe meglio dire mezza calzetta), presuntuosa e pacchiana, che spesso trionfa nel teatrino pseudointellettuale. I «non pensanti», per citare ancora il passo di Bobbio così caro a Martini, si trovano molto spesso tra chi blatera di cultura.
«Defensor civitatis», Martini sa bene che la Città  â€” ossia la società , la realtà  â€” è anche un buio inferno di violenza, di solitudine, di sofferenza senza nome; conosce — sottolinea Ferruccio Parazzoli — le «città  terribili» come i grandi scrittori che si sono calati negli inferi contemporanei. Guarda in faccia la negazione anche più dura, come l’ha guardata Cristo nel Getsemani, chiedendo per un attimo di sottrarsi alla sua Passione. Queste pagine sono ricche di temi, problemi, analisi, sfide che investono la nostra vita. La realtà  scaraventa addosso al pastore come a tutti gli uomini difficoltà , disincanti, catastrofi e sconfitte; la sua risposta è ogni volta ferma e aperta, un «buon combattimento», per usare l’espressione di San Paolo, pronto a raccogliere la sfida e ad accettare il nuovo, ma irremovibile nella difesa dei valori essenziali e non negoziabili. L’etica non è un sondaggio statistico dei costumi in quel momento prevalenti.
L’episcopato di Martini si incrocia con le tempeste di una bruciante stagione storica di trasformazioni e sconvolgimenti, dalla corruzione al terrorismo, dal disagio sociale spesso drammatico al confronto con le ondate di immigrati e con le loro diverse fedi e tradizioni, dalle ripercussioni del crollo del comunismo al terremoto della politica italiana, dal dominio di una sfrenata e autodistruttiva corsa a un profitto irreale a una crisi economica che impoverisce il Paese.
«Quest’uomo misterioso che parlava con eccessiva lentezza», ha scritto Ferruccio de Bortoli, sapeva «squarciare il velo della sofferta rassegnazione». Nell’azione e nel pensiero di Martini la fede più solida si unisce a un pragmatismo agguerrito, saldando così l’etica della convinzione a quella della responsabilità . Mirabili, per citare solo qualche esempio, le pagine sul rapporto tra la riaffermazione primaria della famiglia e la tutela di altre forme di convivenza affettiva, o quelle, insieme ferme e aperte, sulla caduta delle elementari evidenze etiche.
Le difficoltà , spesso acri per i cristiani, non vengono certo annacquate, ma Martini non vuole cristiani ansiosi o incattiviti. Come l’individuo, pure la Chiesa deve accettare le sfide del tempo, proprio perché il cristianesimo è la fede che si è più calata, calando anche Dio, nella storicità  e nella precarietà  del tempo. Questo ha portato Martini a criticare a viso aperto, con durezza, molte carenze, cedimenti, infedeltà  della Chiesa e a porsi talora in contrasto con la Curia vaticana su alcuni temi essenziali: la libertà  di credere e di scegliere secondo il dettame della propria coscienza, il rischio di vivere, il dialogo ecumenico, fondamentale per chi, come lui, si è nutrito per tutta la vita del pensiero e della cultura ebraica, pastore di Milano ma altrettanto cittadino di Gerusalemme.
In Martini vive lo spirito del Concilio, appreso pure alla grande scuola innovatrice della Chiesa tedesca, che con Augustin Bea, Joseph Ratzinger e altri, è stata, più di mezzo secolo fa, portatrice delle istanze più avanzate e audaci del Concilio stesso, mettendosi talora in contrasto con la Curia romana d’allora. Il rigore filologico del grande studioso, che non transige su una virgola del testo, diventa rigore morale dinanzi ad ogni violazione; il metodo induttivo della ricerca, che risale alla verità  partendo dal basso, è di per sé, ha osservato Marco Garzonio, libera indagine, opposta al metodo deduttivo che fa dogmaticamente discendere dall’alto la verità  sul reale. Martini non si è lasciato sconcertare, come forse è accaduto a Ratzinger, da alcune sfasate e insensate derive assemblear-pulsionali che hanno malamente accompagnato lo spirito innovatore di quegli anni, intimorendo talora alcuni suoi stessi protagonisti; senza sgarrare di un millimetro dai capisaldi della fede e della morale cristiana, non ha permesso ad alcun confuso disordine di farlo arretrare dalla sua ferma e pacata apertura.
Ha conosciuto, prima e dopo la sua morte, molte livide ostilità  da parte dell’ala conservatrice della Chiesa, forse enfatizzate pure dalla vulgata mediatica, anche se egli si è definito «tradizionalista»; infatti l’autentica tradizione, come scriveva anni fa Rodolfo Quadrelli, forte saggista e poeta cattolico avverso ad ogni progressismo di maniera, è la continuità  della Chiesa che cresce creativamente fedele a se stessa, senza snaturarsi e irrigidirsi. Nega questa creativa tradizione sia chi vuole bloccare la Chiesa nel passato, come se poi fosse morta e sclerotizzata, sia chi la vuole far cominciare con i fermenti del Concilio, come se prima fosse in catalessi. Martini sapeva che il Concilio le aveva impresso un nuovo grande slancio, una peculiare forza di parlare al mondo.
Martini era maestro di laicità , ossia di quella capacità  di distinguere fra ciò in cui si può credere e ciò che si può dimostrare; laicità  oggi minacciata dal fondamentalismo clericale e da quello laicista egualmente intolleranti. Da questo spirito autenticamente laico, nasce una delle più forti preoccupazioni espresse da Martini, anche in queste pagine: la preoccupazione per la sopravvivenza dell’ethos politico, sempre più cancellato dalla politica-spettacolo, dall’indecenza sfrontata, dall’esibita negazione delle più elementari virtù civili. Oggi è al potere una colloidale classe sociale non più socialmente definibile, se non con quel termine con cui Marx designava il sottoproletariato oppresso e sfruttato al punto di aver perso coscienza di sé, proletariato intellettualmente, moralmente e politicamente «pezzente» (Lumpenproletariat), parola che oggi ben si adatta a definire una gelatinosa classe media generale che non si può classificare né bassa né media né alta, una vaga e indifferente «gente». Anche la collaborazione di Martini al Corriere, negli ultimi anni e in quelli lontani della stagione più difficile del Corriere — quelle «schegge lucenti di cultura e di grazia dei suoi articoli», come li chiamava il direttore di allora, Alberto Cavallari — è stata una prova di questo impegno civile.
Evangelizzare la nostra società , nel senso proprio e in quello lato, è un compito così arduo da sembrare perfino a Martini un sogno, anche se, come egli precisa, non certo inteso quale fuga nella fantasia. «Lasciateci sognare», dice il titolo di questo libro, titolo inadeguato al libro stesso, che non è l’invocazione di un’anima bella a essere lasciata in pace nelle sue nobili aspirazioni lontane dalla realtà , ma è un buon combattimento a occhi ben aperti sulla realtà , per cambiarla e non solo per sognare di cambiarla, per impedire che ci si appisoli davanti al male.


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