Sudafrica, Zuma conserva la guida con l’aiuto del magnate delle miniere

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MANGAUNG (Sudafrica) — Il sacrificio di 14 vacche e la danza del leopardo gli hanno portato bene. Il presidente Jacob Zuma, 70 anni, 5 mogli e 21 figli, conserva la guida dell’African National Congress, il partito liberatore (e padrone) del Sudafrica dal 1994.
Se l’ha sfangata deve ringraziare anche il soccorso di un antico avversario già  pupillo di Nelson Mandela, l’ex sindacalista dei minatori oggi miliardario minerario Cyril Ramaphosa, 60 anni, che ha accettato di fargli da secondo (e ha preso più voti del capo). Mentre consumano 7 tonnellate di carne arrosto, i 4 mila delegati dell’Anc riuniti a congresso da domenica (accade ogni 5 anni) hanno dato a JZ il 75% dei consensi: biglietto sicuro per la rielezione a presidente nel 2014. Chi guida l’Anc guida il Paese (Alleanza democratica, l’ex opposizione bianca, è minoritaria). Tutto si è deciso a Bloemfontein, qui dove l’Anc nacque (in una chiesa) un secolo fa, che per l’occasione tutti fingono di chiamare con il nome locale Mangaung (il posto dei ghepardi).
Boccheggiante nei sondaggi, sempre rincorso da qualche scandalo (l’ultimo riguarda la casa di famiglia nella terra degli Zulu sistemata con una trentina di milioni forse pubblici), Zuma ha respinto l’attacco del suo vice (nel partito e nel governo). Avessero votato i sudafricani, l’avrebbe spuntata Kgalema Motlanthe (70% di popolarità  contro il 52% di Zuma). Invece lo sfidante ha racimolato solo un migliaio di preferenze presso i delegati in coda (causa ritardi) dalle 3 di notte alle 7 del mattino.
Sulle bancarelle fuori dalla Free State University, dove sono accampati i tendoni e i fornelloni del congresso, non c’è una sola immaginetta di Motlanthe. Un delegato del Limpopo dice che «adesso cominceranno le purghe». Un altro, Mbambo Mandula, plaude al ritorno di Ramaphosa: «Un miliardario non ha bisogno di soldi pubblici».
È quanto disse a Nelson Mandela il dottor Motlana, suo medico e confidente, quando Cyril Ramaphosa nel ’96 lasciò l’incarico di segretario generale dell’Anc. «Diventa ricco e poi torna». Due anni prima Mandela, seguendo i consigli dei vecchi, gli aveva preferito Thabo Mbeki come vicepresidente (e futuro leader). Ramaphosa la prese male. Lui che pure aveva goduto di un’ascesa folgorante, da «esterno»: il ragazzo di Soweto che studiava Legge (mamma comunista devota lutherana, papà  poliziotto) era stato militante anti-apartheid in gruppi religiosi, incarcerato per poco, mai a Robben Island.
Negli anni 80 scopre la vocazione, il sindacato, diventa un leader abile e popolare. Non crede in Mandela, ma rimane folgorato durante una visita in carcere poco prima della sua liberazione (1991). Scintilla reciproca. Cyril diventa il negoziatore numero uno con il regime bianco, sconfigge Zuma alla segretaria Anc, lima il testo della nuova Costituzione. Poi la delusione, Mandela sceglie Mbeki, lui salta nel settore privato che per legge dà  spazio e quote azionarie a neri intraprendenti (con buoni agganci). «Non ci vuole uno scienziato spaziale per fare un businessman»: mentre fa i soldi acquisendo pezzi di aziende con la sua società  Shanduka (cambio in lingua venda), nell’Anc resta in seconda fila.
L’ex sindacalista possiede una quota della miniera dove lo scorso agosto 34 lavoratori in sciopero sono stati uccisi. Una sua email dimostra che ha fatto pressioni per l’intervento deciso delle forze dell’ordine. Ha offerto alle famiglie delle vittime 300 mila euro, mentre per un bufalo a una recente asta ha offerto 2,5 milioni. Ma questo non gli rovina la reputazione qui nel posto dei ghepardi: ha preso oltre tremila voti come vice, trascinando con sé il traballante Zuma.
Come Mandela, anche Ramaphosa da ragazzo diceva che un giorno sarebbe diventato presidente. Appuntamento a fine decennio. Intanto deve trovare il modo di far ripartire l’economia. Un’impresa da scienziato spaziale.


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«Le rivolte nel mondo arabo conoscono una fase di difficoltà , ma un risultato, irreversibile, lo hanno già  ottenuto: è finita, e non tornerà  più, l’epoca dei leader carismatici, che siano Arafat, Nasser, Mubarak, Khomeini o Bin Laden. Il popolo non vuole nessun altro al loro posto, tanto è vero che non ci sono all’orizzonte figure importanti di leader rivoluzionari: ovunque si chiede democrazia e buongoverno, non un capo.

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