Una ricetta europea contro il populismo

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Le conclusioni del Consiglio Europeo non serviranno a contrastare quel senso di ingiustizia e di ribellione contro le classi dirigenti che si è propagato nel Sud Europa e in Irlanda. Sono i paesi del double-dip, della doppia caduta negli inferi, con la crisi del debito dopo la Grande Recessione. Il testo finale fa ancora peggio delle bozze. Non si limita a procrastinare nel tempo la creazione di un bilancio dell’area Euro per gestire crisi come quella del debito. Non ne tratta affatto ignorando completamente le proposte dello stesso presidente del Consiglio Europeo sulla “fiscal capacity”. Eppure è difficile pensare come le istituzioni sovranazionali europee possano trovare supporto e legittimazione democratica senza dimostrare di essere in grado di gestire gravi crisi, con effetti sociali dirompenti, come quella che stiamo attraversando.
I dati resi pubblici in questi giorni da Eurostat ci consegnano un quadro allarmante sui costi sociali della crisi nei paesi contagiati dalla crisi del debito: dal 2008 al 2011 la quota di persone a rischio di povertà  o esclusione sociale è aumentata di 3 punti percentuali in Grecia e in Italia, di 4 punti in Spagna e addirittura di 6 punti percentuali in Irlanda. L’incremento della povertà  e delle disuguaglianze è avvenuto quasi interamente nella seconda recessione, quella successiva alla crisi del debito greco dell’estate 2010, nonostante questa crisi sia sin qui stata in molti paesi meno profonda della Grande Recessione del 2008-9. Il fatto è che questa volta non si sono potuti attivare quegli strumenti di protezione sociale che avevano inizialmente attutito le conseguenze della caduta del prodotto interno lordo sui redditi delle famiglie. Il consolidamento fiscale eccessivamente rapido imposto da un’Europa che opera quasi solo con il metodo intergovernativo ha portato a tagli degli ammortizzatori sociali proprio nel momento in cui questi sistemi operano con maggiore efficacia per contenere i costi sociali della crisi e stabilizzare l’economia. Per capire le conseguenze di una sola parziale attivazione di questi strumenti di protezione sociale è utile guardare a quanto accaduto durante la Grande Recessione in Irlanda: il prodotto interno lordo è crollato a cavallo tra il 2008 e il 2009 dell’11 per cento, ma grazie ai trasferimenti sociali, il reddito disponibile delle famiglie non è diminuito. Nella seconda crisi, invece, il pil è diminuito di meno di un punto, ma il reddito delle famiglie è crollato del 6 per cento.
Il consolidamento fiscale impone inevitabilmente una razionalizzazione dei sistemi di welfare, ma non dovrebbe mai indebolire le tutele minime, quelle volte a ridurre il rischio di povertà . Dovrebbe essere proprio l’Unione Europea a presidiare questa rete di protezione di ultima istanza, a garantire che venga sempre finanziata, tenendo conto del fatto che le persone oggi maggiormente a rischio di povertà  (in genere i giovani e le famiglie con figli minori) sono spesso poco rappresentate nel processo politico. Il costo di una rete di protezione di base, di un sistema di reddito minimo garantito, è relativamente contenuto, attorno a mezzo punto di pil dell’Unione. Solo presidiando i minimi si può razionalizzare il sistema di protezione sociale in modo efficace perché non si offre spazio a deroghe concesse in nome (spesso solo in nome) della tutela dei più deboli. A questo ci deve pensare il reddito minimo garantito. Inoltre l’introduzione di una rete pan-europea avrebbe il vantaggio di rendere credibile l’impegno a non impedire a tutti i costi il fallimento di Stati dell’unione monetaria che da qui in poi non rispettassero i vincoli di bilancio imposti dal fiscal compact. È un modo, in altre parole, per affrontare il problema dell’azzardo morale, del rischio di comportamenti opportunistici, insito in ogni piano di salvataggio. Uno Stato americano può fallire anche perché i programmi di assistenza di base vengono comunque finanziati dal governo federale. Solo quando l’Unione Monetaria Europea sarà  in condizione di finanziare dal centro schemi di assistenza di base potrà  permettersi di lasciare fallire i singoli Stati.
L’Europa potrebbe oggi giocare un ruolo importante anche nel contenimento delle disuguaglianze al di sopra della soglia di povertà . Sono aumentate negli ultimi 30 anni soprattutto per la forte crescita dei redditi dello 0,1 per cento più ricco della popolazione. Divari così forti in paesi in cui si crede che il reddito abbia una forte componente casuale, indipendente dalle abilità  individuali, possono alla lunga minare la coesione sociale. Lo 0,1 più ricco nei diversi paesi ha subito gli effetti della crisi, che inizialmente ha fortemente colpito proprio la loro ricchezza finanziaria, ma si sono rivelati in grado di guadagnare le posizioni perse molto rapidamente. È questo ciò che differenzia maggiormente la crisi attuale da quella del ’29. Allora, secondo la ricostruzione storica di Emmanuel Saez (si veda www.frdb.org), i redditi della parte più ricca della popolazione furono intaccati in modo permanente dalla recessione. Oggi le recessioni hanno solo effetti temporanei sui redditi dei più ricchi che, non appena l’economia riparte, rimbalzano al di sopra dei livelli pre-crisi, a differenza di quanto avviene per il resto della popolazione.
Quando si tassano i redditi più alti c’è sempre il timore di perdere gettito per l’elusione fiscale e perché molti ricchi possono portare i loro redditi altrove. Ad esempio, le star del calcio cambiano paese a seconda delle agevolazioni fiscali concesse nei vari Campionati. Ma se le aliquote sui redditi più alti venissero coordinate a livello europeo, e possibilmente armonizzate con quelle di altri paesi nell’area Ocse, questo arbitraggio fiscale non sarebbe più possibile. A favorire un accordo di questo tipo c’è il fatto che oggi sono proprio i paesi con aliquote più basse sui redditi più alti, ad averne maggiormente bisogno per aumentare il gettito di fronte alla crisi del debito pubblico. Il divario fra il top 0,1 per cento e i redditi medi è così alto negli Stati Uniti che se Obama riuscisse nell’intento di alzare l’aliquota marginale sopra il 40 per cento, riuscirebbe ad aumentare il gettito di circa 200 miliardi, quasi un punto e mezzo di pil. La base imponibile è più ampia negli Stati Uniti che da noi. In Italia per aumentare il gettito non c’è bisogno di aumentare le aliquote. Basterebbe rendere la tassazione dei redditi più inclusiva, portando almeno una parte dei redditi da capitale dentro l’Irpef. Ma ci stiamo muovendo in direzione opposta.


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