Dare a Cesare

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Nelle democrazie a Stato sociale dell’ultima metà  del Ventesimo secolo la politica era ancora capace di imprimere la propria guida ai sotto-sistemi divergenti; era ancora in grado di controbilanciare le tendenze alla disintegrazione sociale. Di conseguenza, sotto le condizioni del “capitalismo incorporato” (embedded capitalism), la politica riuscì ad assolvere questo compito all’interno della cornice dello Stato nazione. Oggi, sotto le condizioni del capitalismo globalizzato, le capacità  politiche atte a proteggere l’integrazione sociale si stanno pericolosamente restringendo. Con il progresso della globalizzazione economica, l’immagine della modernizzazione sociale dipinta dalla teoria dei sistemi sta acquisendo nella realtà  contorni sempre più nitidi.
La politica come mezzo di auto-determinazione democratica è diventata, secondo questa interpretazione, tanto impossibile quanto superflua. Sotto-sistemi auto-poieticamente funzionali si conformano alle loro stesse logiche; essi formano degli ambienti l’uno per l’altro, e da molto tempo si sono autonomizzati nei confronti delle reti sotto-complesse costituite dai diversi mondi vitali (lifeworlds) della popolazione. “Il politico” (the political) è stato trasformato nel codice di un sistema amministrativo che si auto-conserva, e di conseguenza la democrazia rischia di diventare una mera facciata che le agenzie amministrative rivolgono verso i loro indifesi clienti. L’integrazione sistemica risponde a imperativi funzionali e si lascia alle spalle l’integrazione sociale come un meccanismo fin troppo ingombrante. Poiché questo meccanismo funziona ancora tramite le intelligenze degli attori, il suo operare dovrebbe contare sulle strutture normative dei mondi della vita, le quali vengono comunque sempre più marginalizzate.
Sotto le costrizioni degli imperativi economici che dominano in misura crescente le sfere di vita privata, gli individui, intimiditi, si ritirano tra le bolle dei loro interessi privati. La disponibilità  a impegnarsi nell’azione collettiva, la consapevolezza da parte dei cittadini di poter dare forma collettivamente alle condizioni sociali delle loro vite attraverso un’azione solidaristica, sbiadisce sotto quella che viene percepita come la forza degli imperativi sistemici. Più di qualsiasi altra cosa, l’erosione della fiducia nel potere dell’azione collettiva e l’atrofia della sensibilità  normativa accrescono uno scetticismo già  divorante nei confronti dell’auto-comprensione illuminata della modernità . Il pericolo imminente di una democrazia che sta diventando un “modello obsoleto” (Lutz Wingert) è, allora, quella sfida che fornisce rinnovata attualità  (topicality) al concetto apparentemente antiquato del “politico”. 
Almeno per alcuni filosofi francesi e italiani contemporanei, appartenenti alla tradizione di Carl Schmitt, Leo Strauss e Hannah Arendt, e per alcuni studenti di Jacques Derrida, il concetto classico del “politico” serve come antidoto contro le tendenze depoliticizzanti dell’epoca (fatemi menzionare solo Ernesto Laclau, Giorgio Agamben, Claude Lefort e Jean-Luc Nancy). Questi colleghi estendono il loro ragionamento politico a domini metafisici e religiosi che sembrano trascendere l’idea triviale di politica come scontro (wrestling) amministrativo e di potere che conosciamo noi. Per renderci consapevoli «che una società , dimenticato il suo fondamento religioso, vivrebbe nell’illusione di una pura immanenza», Claude Lefort fa appello alla differenza tra le politique (il politico) e la politique (la politica). […]
Dobbiamo le prime concezioni del “politico” elaborate discorsivamente al pensiero del Nomos (Nomosdenken) di Israele, Cina e Grecia, e, più generalmente, all’avanzamento cognitivo che ha avuto luogo durante l’epoca assiale, cioè alle visioni del mondo metafisiche e religiose che stavano emergendo a quel tempo. Tali visioni del mondo misero capo a prospettive che permisero alle élite intellettuali formate da profeti, saggi, monaci e predicatori itineranti di trascendere gli eventi del mondo, inclusi i processi politici, e di adottare nei confronti di ciascuno di essi un atteggiamento distaccato. Da lì in avanti anche i governanti politici furono soggetti alla critica. […]
In opposizione ai classici della tradizione del contratto sociale, che avevano rimosso il concetto del “politico” da ogni serio riferimento alla religione, John Rawls riconosce che il problema dell’impatto politico del ruolo della religione nella società  civile non è stato di per sé risolto dalla secolarizzazione dell’autorità  politica. La secolarizzazione dello Stato non è la stessa cosa della secolarizzazione della società . Ciò spiega l’aria di paradosso che fino a oggi ha alimentato, nei circoli religiosi, un subliminale risentimento nei confronti della giustificazione dei princìpi costituzionali «che provengono dalla sola ragione». Per quanto una costituzione liberale sia fatta in modo da garantire a tutte le comunità  religiose eguali opportunità  di libertà  nella società  civile, essa deve allo stesso tempo proteggere da ogni pressione religiosa i corpi pubblici che hanno la responsabilità  di prendere decisioni collettive vincolanti. Quelle stesse persone che sono espressamente autorizzate a praticare la loro religione e a condurre una vita devota, nei loro ruoli di cittadini devono partecipare ai processi democratici i cui risultati non devono essere “contaminati” religiosamente. Il laicismo pretende di risolvere questo paradosso privatizzando interamente la religione. Ma fino a quando le comunità  religiose rivestono un ruolo vitale nella società  civile e nella sfera pubblica, la politica deliberativa è un prodotto dell’uso pubblico della ragione tanto da parte dei cittadini religiosi quanto da parte di quelli non religiosi.
Certamente il concetto del “politico” rimane un’eredità  sospetta fino a quando la teologia politica tenta di preservare connotazioni meta-sociali per un qualsiasi tipo di autorità  statale. In una democrazia liberale il potere statale ha perso la sua aura religiosa. Ed è difficile vedere, stando al fatto del persistente pluralismo, su quali basi normative possa mai essere invertito lo storico passo verso la secolarizzazione del potere statale. Questo passaggio richiede a sua volta una giustificazione degli elementi costituzionali essenziali e dei risultati del processo democratico secondo modi neutrali nei confronti delle pretese cognitive di visioni del mondo in competizione tra loro. La legittimità  democratica è l’unica a disposizione oggi. L’idea di rimpiazzarla o di completarla in un modo generalmente vincolante mediante qualche fondazione presumibilmente “più profonda” della costituzione conduce all’oscurantismo. Non è da negare, tuttavia, la grandiosa intuizione di John Rawls: la stessa costituzione liberale non deve ignorare i contributi che i gruppi religiosi possono apportare al processo democratico all’interno della società  civile. Pertanto, anche l’identità  collettiva di una comunità  liberale non può non essere coinvolta dal fatto dell’interazione politica tra le parti religiose e non religiose della popolazione, a patto che esse si riconoscano l’un l’altra come membri eguali della stessa comunità  democratica. In questo senso “il politico”, migrato dal livello dello Stato alla società  civile, mantiene un riferimento alla religione. Non è qui anzitutto rilevante la concezione di un consenso per intersezione (overlapping consensus) tra dottrine concorrenti e visioni del mondo. Con la sua idea dell’«uso pubblico della ragione», Rawls offre piuttosto una chiave promettente per spiegare come il vero e proprio ruolo della religione nella sfera pubblica contribuisca a interpretare razionalmente ciò che potremmo ancora chiamare “il politico”, cioè qualcosa di distinto dalla politica [politics] e dalle politiche [policies]. […]
Nel discorso democratico i cittadini secolari e religiosi stanno in una relazione complementare. Entrambi sono coinvolti in un’interazione costitutiva per un processo democratico che sorge nel terreno della società  civile e si sviluppa attraverso le reti comunicative informali della sfera pubblica. Fino a quando le comunità  religiose rimangono una forza vitale nella società  civile, il loro contributo al processo di legittimazione riflette almeno un riferimento diretto alla religione che è conservato dal “politico” anche in uno Stato secolare. Sebbene la religione non possa essere ridotta alla moralità  né essere assimilata agli orientamenti etici ai valori, essa mantiene in vita una consapevolezza di entrambi gli elementi. Allo stesso modo, l’uso pubblico della ragione da parte di cittadini religiosi e non religiosi può incoraggiare la politica deliberativa in una società  civile pluralistica e portare al recupero, per la cultura politica nel suo complesso, dei potenziali semantici depositati nelle tradizioni religiose. […]

Traduzione Federica Gregoratto


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