Diabaly, le macerie della battaglia

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DIABALY — La battaglia dev’essere stata violentissima. Il centro di Diabaly è stato risparmiato ma l’accampamento dove i ribelli islamici avevano piazzato il loro quartier generale è completamente distrutto. Veicoli militari carbonizzati, palazzine sventrate, mozziconi di alberi sopravvissuti al fuoco, muri anneriti dalle esplosioni. E poi una rancida puzza di cadaveri dei quali però non c’è traccia: «Portati via prima dell’arrivo dei giornalisti», confessa un sergente maliano.
I segni della fuga sono evidenti. Un camion ha cercato di sfondare un muro nel tentativo di scappare ma è rimasto intrappolato a metà . E per correre a gambe levate molti dei fedeli di Allah hanno abbandonato gli stivaletti militari troppo pesanti e ingombranti. Un gesto simile a quello dell’etiope Abebe Bikila che alle Olimpiadi di Roma nel 1960 si tolse le scarpette a metà  gara e vinse scalzo. I bombardamenti mirati degli elicotteri e degli aerei francesi hanno martellato le posizioni nemiche lunedì e martedì della scorsa settimana, ma l’accesso ai giornalisti è stato impedito fino a ieri pomeriggio. «Ancora stamattina — spiega un soldato maliano — ci sono stati scambi di colpi d’arma da fuoco».
La vita comunque è ripresa in pieno, forse perché i drappelli di soldati maliani dislocati in tutta la città  rassicurano la popolazione. In centro un camion sta scaricando sacchi di cibo mentre, accanto al quartiere generale distrutto, in un misero campetto con tanto di porte con le reti strappate, alcuni ragazzini stanno giocando a pallone.
La città  appare intatta, segno che non ci sono stati combattimenti per le strade. Lo conferma Adama Natme, un vecchietto con la barba bianca e un cappellino sdrucito in testa. Accanto la moglie (l’ultima), più giovane di una quarantina d’anni. «All’arrivo degli islamici l’avevo mandata via con i nostri tre figli — dice indicando la donna —. Io sono rimasto qui a guardia della casa». Fuori dalla sua porta ci sono tre veicoli carbonizzati: «Li hanno colpiti con gli elicotteri, ma i barbous (cioè i barbuti, parlando degli islamici, ndr) sono scappati prima». Secondo un gruppetto di militari, i ribelli si sono rifugiati nelle foresta di Ouagadou, una ventina di chilometri a nord, ma è anche possibile che abbiano raggiunto la Mauritania la cui frontiera, a Bassicolo, non è lontana. Ed è da lì che erano passati i fondamentalisti per conquistare Diabaly.
Solaiman è un giovane che curiosa accanto agli scheletri di due tecniche (camioncini che montano sul pianale di carico una mitragliatrice pesante) fulminate da una scarica di bombe. Ha una voglia matta di urlare la sua rabbia contro i fanatici islamici. «Poco prima che arrivassero — racconta — gli imam delle moschee hanno convocato i fedeli e ammonito la gente ad accoglierli con favore e affetto. Li hanno presentati come liberatori contro il malcostume e la corruzione. Una volta in città  â€” ha continuato — gli uomini di Ansar Dine, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) e del Movimento per l’Unità  e la Jihad nell’Africa Occidentale che si erano mescolati tra loro, hanno tenuto comizi per spiegare con grande pacatezza che intendevano conquistare tutto il Mali per applicare la sharia, cioè la legge coranica. Ma noi conosciamo i loro trucchi: si presentano con in mano un dono e nell’altra un bastone».
Durante l’unica giornata in cui hanno governato in pace (i bombardamenti francesi sono cominciati il giorno successivo al loro arrivo in città ), comunque, non hanno imposto nessuna delle misure draconiane di cui vanno fieri, come il velo totale o il bando del fumo. «Non hanno avuto tempo — precisa Soleiman —. Però dalle case dei loro amici rimasti in città , sono spuntati i mitra e le pistole, segno che l’arrivo dei ribelli era preparato, e c’era veramente qualcuno pronto ad accoglierli. I loro sostenitori in città  ora non ci sono più. Sono scappati verso nord, probabilmente assieme ai ribelli».
Sulla strada che da Bamako porta a Diabaly si incrociano diversi convogli misti francesi/maliani: camionette, blindati porta truppe, veicoli armati con cannoncini. Sulle antenne e sulle carlinghe nessun segno di riconoscimento. Solo sul primo e l’ultimo della fila sventola il vessillo maliano insieme a quello francese. Nelle poche città  e nei tanti villaggi che si incontrano invece le bandiere vengono esibite: nei negozi, davanti alle porte, appese ai pali delle luce. E poi sulle biciclette, sulle moto, sui camion, sulle automobili. E per strada i venditori di bandierine si sprecano. Se non ci fosse il dramma della guerra sembrerebbe di essere in uno stadio.
Massimo A. Alberizzi


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