Il boom dei simboli: sono 215 E (quasi) tutti ci mettono il nome

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ROMA — La bacheca del Viminale è strapiena: sono 215 i simboli presentati per questa tornata elettorale del 24 e 25 febbraio. Un mini-boom del contrassegno pari al più 15 per cento: alle politiche del 2008 erano «solo» 181. Dopo la scrematura ne furono accettati 153. Entro domani il ministero dell’Interno deciderà  chi sarà  ammesso, respinto (ma esiste sempre il ricorso in Cassazione) o rimandato: in questo caso il «concorrente» avrà  48 ore di tempo per riproporsi con le modifiche richieste. Perciò la corsa di molte compagini «tarocche» potrebbe finire qui. O incagliarsi alla tappa successiva, quella della raccolta delle 30 mila firme, da cui sono esentati i partiti già  presenti in Parlamento da inizio legislatura. Poi domenica 20 e lunedì 21 verranno presentate le liste.
Svelato dunque anche il logo del Pdl, l’unico grosso calibro rimasto misterioso fino all’ultimo. In realtà  sono due, catalogati al numero 196 e 196 bis: in quello per l’estero non c’è il sottotitolo «Berlusconi presidente» ma «Centro destra italiano». La Lega invece ha ritirato il «Maroni presidente», che sarebbe stato un doppione. Mossa strategica del Carroccio: «Serviva solo ad evitare liste civetta», ha spiegato Calderoli. La coalizione di centrodestra, capitanata dal Cavaliere, alla Camera comprende anche Grande Sud e Mpa, Fratelli d’Italia, Pensionati, Intesa popolare, La Destra di Storace, Liberi da Equitalia e il Mir di Samorì. Al Senato si aggiungono Popolari Italia domani, Basta Tasse, Lista del Popolo e Rinascimento italiano.
Sette i partiti dello schieramento di centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani: oltre al Pd ci sono Sel di Vendola, Centro democratico di Tabacci e Donadi, il Psi, il Megafono di Crocetta, i Moderati di Portas e la Svp. Formazione fissa, vale per Montecitorio, Palazzo Madama e estero.
Al centro, con il Professore, al Senato c’è la lista Monti per l’Italia, alla Camera invece alla Lista civica dell’ex premier si affiancano Fli di Fini e Udc di Casini. Lo scudo crociato è in pieno revival: compare in altri tre simboli. Mentre molte piccole liste, da Viva l’Italia a Mondo Anziani, hanno deciso di coalizzarsi dichiarando come loro capo il pubblicitario romano Ottavio Pasqualucci, leader di Forza Roma: in questo modo, se il Viminale ammetterà  questi simboli sulle schede, i loro voti si sommeranno.
Detto che il primo logo depositato è stato quello del Maie di Merlo e l’ultimo, il numero 215, quello di Unione popolare, il trend dominante è sicuramente quello autoreferenziale: quasi tutti includono nel simbolo anche il nome del proprio leader. Tra i big, soltanto il Pd va controcorrente e rinuncia a metterci Bersani. Gli altri invece sono bene in evidenza: Monti, Vendola, Berlusconi, Casini, Storace, Grillo, Ingroia, Fini, Di Pietro, Maroni, Samorì, Mastella, che ritorna con l’Udeur, persino la Staller.
Per il politologo Gianfranco Pasquino «uno può scegliere di adeguarsi o decidere di essere l’unico in controtendenza, come Bersani». In pratica anche qui vale la regola morettiana del «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente».
Difficile dire quale sia la mossa che paga in termini di consensi. «Non so se mettere il proprio nome porti voti o no, di certo consente una migliore identificazione del partito», spiega Pasquino. «Con tante formazioni politiche che nascono e muoiono in poco tempo, questa è una classica scorciatoia cognitiva. Voto Casini, voto Ingroia, è più semplice».
L’unica eccezione resta il Cavaliere. «In passato è provato che la gente ha votato proprio lui, non il partito. Berlusconi catalizza le preferenze, sarà  così anche stavolta». Però non è scontato che sarebbe il premier. «Non ci credo. Nel caso, improbabile, che vinca il Pdl, fermo restando che sceglie il presidente Napolitano, il capo del governo sarà  Berlusconi».
Il sondaggista Nicola Piepoli dice che «non c’è una regola generale. Chiaro che il Pd sta bene com’è, è vincente con o senza la faccia di Bersani. Per altri invece può essere determinante». La questione più che politica, rivela, è psicologica: «È il comportamento del singolo che conta. Tanto più uno ha fiducia in sé, meno ha bisogno di comparire in prima persona, convinto che il partito possa farcela da solo. Se invece non è sicuro dei suoi, sente di doversi proporre in prima persona, per convincere gli elettori».
Non può valere il contrario, ovvero che Bersani, in fondo, non attira voti? «Guardi, a queste politiche io vorrei essere lui, avrei già  vinto».


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