La rabbia degli ex an: «Usati e abbandonati per far posto a Scilipoti»

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ROMA — Indignati. Amareggiati. Offesi. Non se lo aspettavano gli esponenti di An confluiti nel Pdl, o ritornati dopo una breve parentesi finiana, di finire, nella stragrande maggioranza, fuori dalle liste del Pdl. Le parole per descrivere lo stato d’animo nel day after le trova Mario Landolfi: «È stata una pulizia etnica. Paghiamo quelle “lettere scarlatte”: An». E mentre Giorgia Meloni spalanca agli esclusi (e ai loro elettori) le braccia di Fratelli d’Italia e Francesco Storace quelle della Destra, loro vivono momenti amari.
È così per Andrea Ronchi: l’unico ministro ex an del governo Berlusconi non compreso nelle liste del Pdl. Fondatore di An, portavoce del partito di Gianfranco Fini, il più accanito sostenitore dell’alleanza con Silvio Berlusconi, in vista di un rafforzamento del centrodestra, aveva avuto fino alla vigilia delle liste ampie rassicurazioni verbali della sua candidatura. Volate, come quelle dei suoi compagni di partito, in silenzio. «Nessuno ci ha cercato. Sono profondamente rattristato e deluso. Dai comportamenti umani ancor prima che politici», dice. Gli pesa che sulla bilancia non sia stato messo il suo «lavoro svolto come ministro delle Politiche europee con attestati di stima del mondo imprenditoriale e internazionale nella battaglia in difesa del made in Italy, contro la contraffazione, a sostegno della lingua italiana, sul clima». Paga l’aver seguito Fini in Fli? «Eravamo amici d’infanzia. E quando Angelino Alfano fece riferimento al Partito popolare europeo con Urso uscimmo da Fli. Tornai nel Pdl senza chiedere nulla in cambio». A differenza di Razzi e Scilipoti, che il premio lo hanno ritirato in lista, per lui nemmeno un posto in coda, malgrado l’appoggio politico dato con Urso ad Alfano portando al fianco del segretario pdl Aznar. Assieme ad Adolfo Urso, Pippo Scalia, Maurizio Saia e Giuseppe Menardi, Ronchi ha scritto ieri una nota: «Nella formazione delle liste hanno prevalso altre logiche sulle quali non ci interroghiamo, lo faranno gli elettori. Abbiamo sempre operato con disinteresse, scegliendo e talvolta sbagliando solo sulla base di convinzioni politiche profonde e coerenti, anteponendo sempre gli interessi generali a quelli personali».
Pentiti? Adolfo Urso assicura di no: «Quello che abbiamo fatto lo rifaremmo. Con coerenza e impegno abbiamo agito sempre senza promessa di aver nulla in cambio». Concorda Silvano Moffa: «Alla luce di quello che è successo, meglio fuori che dentro. Non capisco la motivazione. Mi sarei aspettato logiche più politiche e meno personali. Invece ho assistito in maniera disincantata a uno spettacolo esilarante e poco dignitoso».
Valeva la pena seguire Berlusconi abbandonando Fini quando cercò di farlo cadere? «La scelta del 14 dicembre 2010 la rivendico. Odio i ribaltoni e sono stato coerente con l’elettorato di centrodestra. Ed è stata una scelta nell’interesse del Paese che in quel momento non poteva andare alle elezioni. Tant’è che quando Berlusconi si è tirato indietro non si è tornati alle urne». Mario Landolfi tornerà  «a fare il giornalista» a Il Secolo d’Italia, diretto da un altro escluso eccellente, Marcello De Angelis. Con un dente amaro nei confronti degli antichi compagni di strada Maurizio Gasparri e Altero Matteoli: «Dovevano difenderci. Io sono stato ministro, due volte in vigilanza, una certa notorietà  ce l’ho». Hanno pesato le pendenze penali? «No. La mia candidatura non è neanche arrivata al tavolo delle liste. C’è stato un veto di Nitto Palma che col quale sono in netto contrasto sulla gestione del partito. Mi consola che sono stato bocciato dalla nomenclatura e non dagli elettori». Gliela farà  pagare? «Mio padre, vecchio profumiere, diceva che bisognava vivere di clienti stanziali, bisognava accudirli, non trattarli con sufficienza. La gente guarderà  a quale Maradona si è dovuto fare spazio. E se Maradona non lo troverà , si regolerà ».
Virginia Piccolillo


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