La storia senza tempo per la classe che verrà 

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Wcm, Lo, Tqm, non sono nomi in codice di chi sa quale operazione segreta, ma gli acronimi di alcuni dei modi con cui il management aziendale, dalla fine degli anni Ottanta in poi del secolo scorso, ha profondamente ristrutturato l’organizzazione del lavoro e, di conseguenza, la prassi stessa dell’attività  lavorativa. Volendoli scrivere per esteso li si leggerebbe così: «World Class Manufacturing», «Lean Organization» e «Total Quality Managment». Volendosi chiedere cosa rispettivamente significhino, si potrebbe dire grosso modo così: maggiore partecipazione del lavoratore ai destini produttivi dell’azienda; alleggerimento delle diverse fasi del processo produttivo per evitare inutili sprechi e guasti; raggiungimento della piena soddisfazione del cliente.
Forzando la lettura dei fenomeni appena indicati al fine di individuare un’unica «matrice» da cui essi idealmente deriverebbero, si potrebbe dire che sia il toyotismo, la filosofia della Toyota, la grande casa automobilistica giapponese, il «movimento culturale» da cui il management contemporaneo ha tratto ispirazione per riorganizzare il lavoro. Volendo poi tracciare una sempre ideale successione dei modi con cui la grande industria ha trasformato il lavoro, si collocherebbero quelli Toyota subito dopo i modelli classici fordisti e taylorisitici, per intenderci, quelli che all’operaio imponevano esclusivamente la prestazione fisica in fabbrica, non la partecipazione personale, emotiva e culturale al progetto aziendale.
In questo senso, i sistemi manageriali Toyota sembrerebbero rappresentare un avanzamento rispetto ai modelli di «governo» della forza lavoro della prima metà  del Novecento. Eppure, seguendo le riflessioni del management culturalmente più attrezzato perché ricettivo dei contributi delle scienze umane e sociali, penso in primo luogo alla produzione di Alessandro Cravera, dietro alle nuove forme di coinvolgimento del personale dipendente, si anniderebbero ancora sistemi di controllo rigido non molto distanti da quelli inventati da F. W. Taylor. Cravera, però, è una sorta di isola protetta. Il toyotismo rimane il modello manageriale di riferimento per governare, controllare e disciplinare in modo apparentemente morbido quella nuova forza lavoro che, da André Gorz in poi, non ci stanchiamo di chiamare immateriale.
Un’operazione archeologica
Quindi, il toyotismo come punta di svolta nella riorganizzazione complessiva dei sistemi produttivi del lavoro. Se le cose stanno così, e a dircelo sono i manager (si veda a riguardo il recentissimo Il lavoro perduto e ritrovato, a cura di Gianni Vattimo, Pasquale Davide de Palma e Giuseppe Iannantuono, Mimesis, pp. 258, euro 22, in particolare gli interventi di Gianfranco Dioguardi, Alessandro Cravera, Franco Debenedetti e Gianfranco Rebora), non si riesce a capire perché Antonino Ianfranca nel suo Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukà¡cs (Mimesis, pp. 339, euro 24), gli riservi un giudizio così sfuggente: «Soltanto apparentemente il toyotismo coinvolge le qualità  morali del lavoratore nell’attività  lavorativa, piuttosto si limita a sfruttarle per rendere il lavoro più produttivo, ma non accetta critiche che provengano dalla “classe che vive di lavoro”, come dovremmo chiamare più giustamente la classe lavoratrice nell’epoca della globalizzazione».
Che il testo di Ianfranca sia dedicato al pensiero di Lukà¡cs e non alle attuali forme di organizzazione del lavoro, non è una obiezione valida, dal momento che l’autore, del filosofo ungherese, ricostruisce l’intera opera a partire dal concetto di lavoro. E allora, con cosa fare reagire questo concetto, con cosa metterlo alla prova per verificarne la validità , se non con il modo più avanzato con cui la grande industria contemporanea ha prima trasformato e poi governato il mondo del lavoro? Con quali produzioni teoriche se non quelle del management più avanguardistico fare entrare in rotta di collisione il modello di lavoro elaborato dall’ultimo Lukà¡cs nell’Ontologia dell’essere sociale, testo a cui Ianfranca dedica così tanto spazio?
Al confronto con l’orizzonte lavoristico attuale il libro di Ianfranca preferisce una più rassicurante operazione archeologica di ricostruzione del concetto di lavoro nell’intera produzione teorica lukà¡csiana. Operazione lunga e faticosa – il testo accompagna l’autore da circa venticinque anni – che riserva non poche sorprese a quanti hanno e continuano ad avere un’immagine dell’opera del filosofo ungherese scandita da rotture e da compromessi con lo stalinismo. Ianfranca si sforza di dimostrarci con grande competenza che in realtà  tra il primo e il secondo Lukà¡cs, il cui spartiacque sarebbe rappresentato da Storia e coscienza di classe, quindi tra l’esistenzialista de L’anima e le forme e il marxista ortodosso de La distruzione della ragione, non si dà  rottura, ma, guardata la sua intera opera nella prospettiva del lavoro, riprese e approfondimenti sviluppati in tempi successivi di temi, suggestioni e intuizioni giovanili. Inoltre, per l’adesione allo stalinismo, Ianfranca produce tutta una serie di documenti con cui dimostra la sostanziale opposizione del filosofo al regime sovietico. Ciò, naturalmente, sarà  di grande interesse per gli appassionati del pensatore ungherese, ma il banco di prova del testo rimane e deve rimane la questione del lavoro oggi.
Nella sua frettolosa valutazione del toyotismo, Ianfranca propone di «sviluppare una critica marxista alla globalizzazione», globalizzazione di cui il management Toyota sarebbe uno dei tanti effetti, a partire dalla categoria lukà¡csiana del «lavoro ben fatto». Con questo si intende il giudizio che l’operaio dà  del proprio lavoro, valutazione che lo rimetterebbe al centro del processo produttivo. A parere dell’autore questo valutarsi da sé dell’operaio romperebbe il «livello di indifferenza» con cui il sistema produttivo tratta chi crea effettivamente ricchezza, anche quello Toyota che si nasconde dietro la retorica del coinvolgimento.
L’incognita della conoscenza
Mentre Ianfranca pensa di avviare una critica alla condizione contemporanea del lavoro partendo da una categoria di questo tipo, i manager si muovono avendo sotto gli occhi una situazione completamente diversa: «Nella società  dell’informazione c’è una maggiore richiesta di prodotti il cui valore è prevalentemente immateriale e conoscitivo, prodotti destinati sia immediatamente al consumo, sia mediatamente per la “produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza”. E quindi c’è una richiesta di lavoratori della conoscenza. Il problema manageriale su cui vogliamo concentrarci consiste nella loro gestione».
Confrontata con un’analisi come questa, la proposta di Ianfranca mostra tutti i suoi limiti: è come se l’autore puntasse direttamente ad una resistenza operaia saltando completamente il modo di funzionamento del sistema produttivo che pone in essere la nuova forza lavoro immateriale. A questo riguardo il management offre strumenti teorici più sicuri e affidabili. Prendiamoli e iniziamo ad usarli contro chi li forgia a proprio profitto.


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