Peter Stein “L’arte è l’ultima forma mistica che abbiamo perché trasforma l’immaginazione in realtà ”

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«Il teatro è la cosa con cui prenderò in trappola la coscienza del re». È questa celebre battuta di Amleto ad avermi convinto dell’opportunità  di concludere la nostra breve perlustrazione su «che cosa resta della verità » con un uomo di teatro. Ovvero con chi, proprio perché gioca continuamente con la finzione, dispone di buone carte per cogliere quanto si nasconde dietro la realtà  così come ci viene presentata. E dunque può aiutarci a «prendere in trappola» la coscienza del potere a noi contemporaneo. Tanto più se quell’uomo risponde al nome di Peter Stein, berlinese del 1937, che sin dai tempi del leggendario collettivo della Schaubà¼hne ha sempre pensato a un teatro in qualche modo “politico”. Sia che tale teatro riprendesse testi fondamentali della tradizione antica, oppure i testi di grandi moderni – fino all’ultimo spettacolo dedicato ai Demoni di Dostoevskij.
«Più in generale, è tutta l’arte che cerca il vero con i mezzi della menzogna. Anche la letteratura fa lo stesso e fa lo stesso il cinema. La differenza del teatro sta nel suo tratto “mistico”, parola che un razionalista come me fa fatica a pronunciare. Ma è un dato di fatto. Perché mentre la verità  di un film è impressa su una pellicola che si può vedere in migliaia di sale, l’evento teatrale accade solo in un certo luogo e in un certo momento. Grazie agli attori, i quali riescono a far finta di inventare in quel preciso istante un certo testo; e, vestendo panni diversi dai loro, lo restituiscono a un pubblico con il quale creano una comunità  vivente. Ecco così che una realtà  immaginaria diventa concreta, determinando una sensazione di iper-verità ». 
Questa specificità  teatrale si sposa bene all’idea di verità , che per sua natura non è fissata una volta per sempre. Appare e scompare, come il teatro.
«Il problema è che né io né lei potremmo offrire un’immagine precisa ed esauriente del concetto di verità . Ci rimane invece la facoltà  della distinzione. Ad esempio, giusto a proposito di potere: prendiamo la finanza, che oggi trionfa sulla scena del discorso pubblico. E cerchiamo di distinguere: così come non si può comprare una Ferrari senza avere duecentomila euro in tasca, allo stesso modo è bene tenere in ordine i bilanci degli Stati. Ma tutt’altra faccenda è l’attuale delirio dei mercati finanziari, da cui emerge il peggio della natura umana: un mix di sopraffazione e inganno racchiusi in una sorta di nuovo casinò planetario in cui siamo precipitati tutti, nostro malgrado. Si torna così al problema della ricerca del senso che vogliamo dare alla vita. Come dice Hugo Cabret, il bambino protagonista dell’ultimo, incantevole film di Scorsese, il mondo è una sorta di immenso ingranaggio, di cui noi rappresentiamo un’infinitesima parte: nostro dovere è cercare la nostra peculiare funzione. Sempre la solita storia: provare a dare senso a ciò che senso non ha. Ecco in cosa ci differenziamo dagli animali: in questa disperata ricerca di senso e dunque di verità , che continuamente ci sfugge. Da qui la religione e l’arte. Che è poi la mia personalissima forma di religione». 
La verità  rimanda alla convinzione. Lei era talmente convinto della necessità  di portare a teatro i Demoni di Dostoevskij, da farlo addirittura a casa sua, una volta interrottosi il rapporto con lo Stabile di Torino.
«Ma questo ha a che vedere soprattutto con la mia natura di homo faber. Io sono uno che fa, e se qualcuno mi provoca, questa è una ragione in più per fare. Certo, non sarei andato avanti se non mi fossi convinto che quel testo coglieva in modo profetico, e difficilmente spiegabile, qualcosa del nostro tempo».
Veramente lei l’ha spiegato bene, mettendo al centro Stavrogin, l’uomo vuoto, indifferente, che può fare tutto e il contrario di tutto, una volta finita l’epoca fondata sulla religione e poi quella delle ideologie.
«Il teatro parla sempre della crisi e della necessaria trasformazione di una realtà  data. Nell’Orestea di Eschilo, che per questo motivo porterò presto in Iran, si racconta dell’estinzione di una legge che ormai non funziona più. Nei Demoni accade qualcosa di analogo. C’era un mondo regolato e ora quel mondo non tiene più. Solo che la vera tragedia non è quella di Pà«tr, il rivoluzionario che vorrebbe abbattere quel sistema. No, la figura tragica è quella di Stavrogin, spinto al suicidio dall’assoluta estraneità  rispetto a quanto lo circonda. E veniamo così all’oggi: al rischio dell’indifferenza totale, a tutto. Una cosa che in sé potrebbe anche essere vista come una conquista enorme, perché questo dimostra che nessuna ideologia può più soggiogarci. Siamo diventati immuni. Peccato però che sia proprio l’indifferenza a spegnere la ricerca di verità  di cui prima si parlava. È come se non ne valesse più la pena, alla lettera. Del resto, perché darsi da fare se tutto ci arriva direttamente grazie a un computer? Quando mi sono laureato io, dovevo riflettere su quale fosse la migliore biblioteca tedesca dove cercare i testi necessari alla mia tesi sul romanticismo. Oggi non ce n’è bisogno: è tutto dentro questa macchinetta, in cui ogni informazione elide e azzera la precedente. L’esatto contrario della tensione verso ciò che ci appare indispensabile».
Sta delineando un quadro non particolarmente roseo.
«Sono avverso a qualunque atteggiamento nostalgico. Alla fine della guerra avevo sette anni e ho visto lo stato in cui versavano le città  tedesche ed europee. Ho visto i cadaveri nelle strade e adesso quei cadaveri non ci sono più. Come posso dire che adesso è peggio di allora? Aggiungo che, facendo teatro, sono in contatto costante con i giovani. E noto in loro una predisposizione alla vita quanto mai interessante, perché opposta a quella che facevo mia alla loro età . Prendiamo la musica. Io avevo una mentalità  rigida e selettiva: c’era soltanto Bach e dopo di lui nulla aveva senso e valore, compreso Mozart. Oggi, al contrario, c’è posto per tutto: dal tardo Schubert ai complessi pop. Si potrebbe obiettare che così facendo non si va molto in profondità , ma siccome devo riconoscere che neanch’io ho raggiunto grandi risultati con i miei affondo, l’obiezione cade. Forse l’unica differenza è che io, almeno, sono consapevole della mia impasse. Non so se valga altrettanto per i giovani di oggi quando assumono, indifferentemente, qualunque posizione sulla scena».
Un po’ alla Stavrogin.
«Esatto. Ed è terribile, in un certo senso. Però devo riconoscere che questa nuova logica combinatoria, se accompagnata da una necessaria maturazione e dai giusti correttivi, può anche risultare molto fertile. Il grande problema dell’arte odierna, semmai, è sempre più quello indicato da Goethe, quando parlava di un tempo “velociferino”. Perché è nella velocità  che si annida il diabolico, la ragione del patto di Faust con il diavolo. Chi è proiettato soltanto verso il futuro, non potrà  mai essere intero. Si disegna così in netta evidenza la dicotomia dell’essere umano, che da un lato vorrebbe realizzarsi e sostare e dall’altro è perennemente sospinto avanti dallo Streben, da quell’anelito che è assieme causa di dannazione e salvezza».
Con gli angeli che dicono: «Sì, si può redimere chi sempre tende all’alto».
«Attenzione, gli angeli dicono “si può”. Ovvero, se vogliamo lo salviamo, se no lo lasciamo precipitare. Ecco tutta la furbizia di Goethe. Non dimentichi che era un francofortese, furbo come tutti i francofortesi: anche nei momenti di massimo abbandono poetico, in lui c’è sempre questo tratto smagato».
Nella sua introduzione al Faust, Cesare Cases ricorda il sarcasmo di Brecht, secondo il quale, di fronte «al muro delle leggi economiche», a nulla vale lo Streben goethiano. Sembra scritto in questi giorni.
«Io non la vedo così. Nel secolo passato ci sono stati cambiamenti enormi. Solo che si sono rivelati catastrofici. Ed è questo, oggi, che paralizza l’Europa: il terribile secolo delle ideologie appena lasciato alle spalle. È questa tremenda eredità  a renderla stanca, inerte, sfibrata: attonita rispetto ad altre realtà  mondiali che si dimostrano più forti, vincenti. Eppure sento che qualcosa di drammatico ci imporrà , a breve, di prendere finalmente delle decisioni. Al modo in cui Agamennone è costretto a farlo nell’Orestea, quando decide di sacrificare la figlia, ben sapendo la violenza insita nella decisione, prima ancora che nell’atto. Perché ogni decisione spazza via un’altra possibilità . Per tornare al Faust, è vero che il suo anelito fa fallimento da ogni punto di vista. Ma aggiungendo quel finale sulla possibile salvezza, Goethe ci ricorda che il nostro vero eroismo si rivela tale soltanto se facciamo tesoro di quanto insegna Hugo Cabret nel film di Scorsese: siamo parte attiva di un meccanismo più grande di noi. La storia non ha senso, ma dobbiamo ugualmente continuare a cercarlo. Lei parlava prima di convinzione. Io parlerei di responsabilità . In una duplice accezione: verso se stessi e verso gli altri. Questo è lo Streben, l’anelito a cui dobbiamo fare riferimento».


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