Limonov, dalla parte dei cattivi anche fra le mura di un gulag

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 Riecco Limonov. L’avevamo lasciato, l’anno scorso, al centro del libro che gli aveva dedicato il biografo e amico Emmanuel Carrère: in copertina c’era allora una sua immagine da bel tenebroso e, come titolo, spiccava isolato quel soprannome inquietante che si è scelto, Limonov (da limonka, una granata russa). L’«inchiesta narrativa», come poi fu definita, si rivelò per molti il libro dell’anno, quasi l’avvio di un nuovo genere letterario: e consacrò definitivamente il suo protagonista al pari di una star.

Lo ritroviamo oggi, Eduard Veniaminovic Savenko in arte Limonov, sempre spiritato e fascinoso anche se le primavere ormai sono settanta, intento a descrivere la sua esperienza di zek, cioè di detenuto in una colonia penale «modello» fuori dal mondo occidentale conosciuto (vicino alla città  di Engel’s, un tempo capitale della regione tedesca del Volga). Un titolo alla Dostoevskij, Il trionfo della metafisica, Memorie di uno scrittore in prigione, introduce il lettore nel mondo concentrazionario cui ci ha abituato la grande letteratura del secolo scorso, e un’infinita memorialistica… solo che qui la faccenda è tutt’altra. Perché il prigioniero, convinto di sperimentare illuminazioni metafisiche e libertà  interiori sotto la sferza del lavoro forzato, è un provocatore. Ma di tipo particolare, a partire dalla definizione politica che ha scelto per sé: nazicomunista o, come gli piace chiamare i militanti del partito che lui stesso ha fondato, nazibol. Provocatore, Limonov, non solo perché la sua bandiera mette insieme i colori hitleriani con le insegne staliniane, prevede il saluto nazista chiuso a pugno alla comunista, giubbotti da picchiatori e teste rasate, opposizione al capitalismo e alla globalizzazione, mito di una Russia eurasiatica contrapposta all’America, simpatia per tutti gli Stati «canaglia» in funzione antisistema. Tutto questo sarebbe poco e non basterebbe ancora a spiegare Limonov: in realtà  è un futurista, un nipotino di Majakovskij, un poeta maledetto innamorato del gesto estetico ed eroico in sé (per esempio andando in Bosnia, imbracciando il fucile, ad aiutare il criminale di guerra serbo Mladic), amante di strepitose modelle giovanissime e insieme di danarosi omosessuali.
Insomma: il Limonov che parla di sè e degli altri prigionieri ne Il trionfo della metafisica è un sovversivo sì metaforico, però disposto farsi rinchiudere in un gulag per anni dopo essere stato «incastrato» (in un presunto traffico d’armi) dalla polizia. E dunque il suo personaggio, la sua maschera, sono veri e falsi allo stesso tempo. Veri, perché la Russia di oggi, senza cultura democratica, è terreno di cultura in cui nazismo e comunismo, i vecchi gemelli totalitari, spesso si sposano con soddisfazione di entrambi. Falsi, perché in nome di quegli ideali di cartapesta ha il coraggio di denunciare l’autoritarismo di Putin, di schierarsi spesso con i liberali e difendere per vocazione gli umili. Sempre dalla parte dei cattivi, perché è fin troppo bello ballare con i lupi.


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