Ripartiamo dalle piccole cose

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Già  il concetto di vocazione maggioritaria (quando fu lanciato qualche anno fa) era molto ambiguo. Serviva solo a riciclare il vecchio concetto di egemonia che aveva avvelenato tutto il secolo passato, senza però fare i conti con le due componenti strutturali di una egemonia che si rispetti: avere cioè una visione generale della società , del suo presente come del suo futuro; e mobilitare un soggetto (di classe sociale o statuale) capace di realizzare tale visione. In assenza di queste due componenti chi vaneggiava di vocazione maggioritaria non riusciva a orientare lo sviluppo della società  (pasticciando in generosi riformismi, confusi programmi, improbabili agende) né a indicare i soggetti con cui allearsi per costruire almeno una buona politica (pasticciando fra difesa del ceto medio, miti dei poteri forti e condanne morali verso i ricchi).
Non sorprende allora che le vocazioni maggioritarie siano diventate nel tempo delle enfiagioni che dilatano le ambizioni e l’immagine dei soggetti politici, a tutto scapito di un loro incardinamento sulle cose. Basta guardare alle liste che vanno alle elezioni di febbraio, gonfie come un album di figurine di tutte le competenze possibili; basta guardare ai programmi elettorali, gonfi come manifesti onnicomprensivi a basso regime di concretezza; basta pensare agli stessi leader di schieramento, tutti gonfi nel tentativo di «essere tutto», oltre che di dire tutto, inconsapevoli della deformazione quasi scenica del loro ruolo. Con quelle liste, con quei programmi, con quei leader sarà  assai difficile dare atterraggio storico alla vocazione maggioritaria; ci si dedicherà  solo a coltivare il potere o ad affidarlo a qualche «restanza» di apparato, partitico o statale che sia. In questa pericolosa prospettiva sarebbe giusto dire basta alla connessione «egemonia-vocazione maggioritaria-gonfiore strutturale» come essa si è andata costruendo negli ultimi anni. E si dovrebbe cominciare a capire insieme che il Paese ha oggi un gran bisogno di una vocazione minoritaria. Senza ritualmente tornare a discutere i rapporti fra élites minoritarie e democrazia moderna, è piuttosto utile segnalare che abbiamo bisogno di forze politiche, anche piccole che siano però tanto orgogliose delle loro radici culturali da non correre ad apparentarsi in coalizioni con cui contrattare posti; abbiamo bisogno di protagonisti della nostra società  civile che entrino in politica accettandone i rischi e non esigendo garanzie previe e status pre-assicurati; abbiamo bisogno (nelle istituzioni e nella società ) di persone che sappiano vivere la terzietà  del loro specifico ruolo (di magistrati, di ricercatori, di manager, di sindacalisti) senza intrupparsi nella diabolica ambizione di diventare parte che governa; abbiamo bisogno di classi dirigenti che nascano dal basso, capaci cioè di interpretare quel che avviene nei fili di erba e nei cespugli della realtà , senza farsi prendere dalla voglia di salire sempre più in alto, illudendosi di meglio padroneggiare una realtà  che al contrario sempre più sfugge alla loro comprensione; potremmo anche aver bisogno di governi tecnici, ma con gente che abbia la umile tecnicalità  di gestire le macchine decisionali nel quotidiano; abbiamo bisogno di una responsabile continuità  nelle piccole virtù, senza enfatiche prediche e crociate sui vizi delle caste; abbiamo bisogno che noi italiani si abbia il coraggio di essere semplicemente noi stessi, gestori delle nostre contraddizioni, senza troppi complessi di colpa.
Abbiamo bisogno, in altre parole, di una dose consistente di minimalismo, coscienti che gli orologi si guastano e si aggiustano partendo dalle rotelline interne, non dalle grandi lancette che si vedono sul quadrante esterno. Non si vede per ora chi possa interpretare tale percorso evolutivo; ma intanto cominciamo una fase di sgonfiamento del dire tutto, volere tutto, essere tutto. Non c’è bisogno di grandi clinici per sapere che i gonfiori nel tempo si tramutano in perniciose malattie.


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