Un Bersani irritato apre la guerra fredda fra sinistra e premier

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Silvio Berlusconi li osserva, li descrive in realtà  come complici e prosegue la sua galoppata televisiva per tentare di risalire la china nei sondaggi. La sensazione di pelle è che nessuno sia più così sicuro di vincere e tanto meno di stravincere, il 24 e 25 febbraio prossimi. Il timore che alcune regioni, Lombardia in testa, sfuggano al controllo del centrosinistra, rende il segretario del Pd più cauto.
È e rimane il principale candidato a palazzo Chigi. Ma anticipa che se anche otterrà  la maggioranza assoluta cercherà  un accordo con i centristi di Monti e di Pier Ferdinando Casini. È come se Bersani avesse fatto tesoro dell’errore dell’Unione di Romano Prodi, che nel 2006 vinse per una manciata di voti e si illuse di governare da sola, cadendo dopo appena due anni e consegnando l’Italia al centrodestra. Il leader del centrosinistra non esclude neppure che un esito incerto possa obbligare a formare una coalizione, e non portare a nuove elezioni come sosteneva quando Monti non era ancora in politica.
E infatti addita il Quirinale di Giorgio Napolitano come l’istituzione che dovrà  «leggere» l’esito del voto e affidare l’incarico per guidare il nuovo governo. Quello che sembra certo, è che non farà  il ministro di Monti, così come quest’ultimo non vuole entrare in un dicastero del centrosinistra. Il premier uscente continua a sottolineare che se il suo movimento non vince, l’Italia rischia «l’arretratezza», un ritorno all’indietro: di fatto, una regressione. Bersani sostiene una tesi più o meno identica ma dal proprio punto di vista: garantendo il rispetto degli impegni con l’Europa e in parallelo criticando «alcuni errori» che Monti avrebbe fatto imponendo l’austerità  e soprattutto non dialogando abbastanza con la Cgil: una coda dell’ideologia del decennio berlusconiano, sembra dire.
Il presidente del Consiglio ha criticato anche ieri i sindacati, sostenendo che alcune organizzazioni «danneggiano i lavoratori» anche con le migliori intenzioni. Bersani gli ha replicato che «non sono un intralcio», e rivalutando l’idea di un governo che sceglie la concertazione. Sono schermaglie tattiche, da parte di leader che si preparano a scontrarsi in modo duro; ma che sono anche consapevoli di non potersi permettere atteggiamenti irragionevoli dopo le elezioni. Il centrosinistra è sempre convinto di vincere. Ma «se si vince con il 51 per cento, bisogna ragionare come se si avesse il 49 per cento», spiega: anche perché nessuno, neppure lui, è in grado di esorcizzare una manovra correttiva a primavera: anche se nessuno vuole parlarne adesso.
Il timore che si voglia «azzoppare la vittoria di qualcuno per essere determinanti» è palpabile, nelle parole che Bersani rivolge proprio ai centristi. Il premier è «ammaccato», agli occhi degli elettori del Pd. E regala una goccia di veleno rispetto all’ipotesi che il Professore diventi il candidato della sinistra alla carica di capo dello Stato. Un paio di mesi fa Bersani aveva scommesso sulla possibilità  che Monti andasse al Quirinale dopo Napolitano, e scartando invece un «bis» a palazzo Chigi: ipotesi che l’interessato aveva lasciati cadere. Il segretario del Pd ha mezzo sepolto questa prospettiva, limitandosi a dire in tv a Porta a porta: «Prendo atto della risposta data da Monti a questa domanda sul Quirinale. Quindi lo vedo meno probabile».


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