E Pier Luigi corteggia Berlino: per innovare mi ispiro a voi

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BERLINO — Bersani è un po’ montiano o Monti è un po’ bersaniano? Qualcuno se lo sarà  chiesto nella sala del Council of Foreign relations, affollata di esperti di politica internazionale e di esponenti del mondo economico e diplomatico tedesco, quando il segretario del Partito democratico ha tessuto le lodi dell’economia sociale di mercato, alla quale «non ci sono modelli alternativi», proprio come aveva fatto il Professore in giugno ricevendo il premio «Responsible leadership». In un certo senso era un interrogativo legittimo, perché il candidato premier del centrosinistra ha voluto in primo luogo illustrare i connotati del suo partito come «grande forza europeista» (tracciandone un’immagine che non è sembrata avere molta parentela con il 1921), il cui contributo è stato decisivo nel «faticoso e indispensabile» percorso di risanamento dell’Italia. Poi però, è passato alle proposte.
Lo ha fatto rispettando le intenzioni della vigilia. Non era venuto in Germania per litigare, ma per «discutere seriamente». Tra l’altro, ha ricordato ai «populisti che urlano in Italia», andare a parlare di Europa «non è uscire fuori di casa». Il suo scopo era quello di proporsi come l’interlocutore del dialogo per costruire l’Unione di domani. Tanto quanto il suo rivale di «Scelta civica». Facendo qualche apertura e muovendo qualche rilievo. In primo luogo il governo Bersani sarà  disponibile (e queste sono cose che a Berlino piacciono) a una responsabilità  politica collettiva «più stringente» sui bilanci dei membri della zona euro e anche a un vincolo sui programmi di riforme. In cambio, però, di «politiche per investimenti e per il lavoro». Sullo sfondo ci sono gli Stati Uniti d’Europa («il mio messaggio fondamentale»,) che vogliono dire «un potere federale democraticamente legittimato, dotato di un bilancio con risorse proprie, capace di svolgere specifiche funzioni, dotato di una Banca centrale e di un Tesoro, competente sui temi indispensabili nella scala globale».
In questo scenario, i due Paesi possono camminare insieme. Anzi, è giusto che lo facciano perché hanno sempre puntato sull’integrazione e perché la Germania di oggi «può portare nell’Unione politica federale di domani la forza del proprio successo economico e quella del proprio modello sociale e istituzionale». Sia rispondendo alle domande del pubblico, sia nella conferenza stampa che ha tenuto nel Willy Brandt Haus, il segretario del Partito democratico non ha lesinato gli elogi ai suoi ospiti. «Se avessimo i soldi — ha osservato — farei molte riforme alla tedesca, per esempio sul piano della formazione e degli ammortizzatori sociali». Una cosa che Bersani rimprovera invece ai governanti di Berlino, tornando all’Europa da costruire, è la «riluttanza» ad assumere un ruolo di leadership politica.
Intanto però mancano meno di venti giorni alle elezioni. Se la cancelliera faccia un po’ di tifo per Monti è un problema che non sembra preoccuparlo più di tanto. Bersani lo ridimensiona indirettamente quando dice, a proposito dell’incontro avuto nel pomeriggio con il ministro delle Finanze Wolfgang Schà¤uble, che «non esiste nessuna remora di nessun tipo a un discorso di collaborazione». Il segretario del Partito democratico e il vecchio leone della Cdu non si conoscevano ma «si sono capiti subito», dicono i suoi collaboratori, forse anche perché rappresentanti di «due grandi partiti popolari». «Sul nostro impegno a difendere i programmi europei — ha raccontato il candidato premier — non c’è stato bisogno di spendere una parola». Sostiene di non averne discusso con Schà¤uble, ma Bersani torna da Berlino sempre più convinto che «tutti abbiano ormai capito che solo noi possiamo battere la destra». E con gli applausi ricevuti nella villa che i nazisti confiscarono alla famiglia Mendelssohn-Bartholdy.
Paolo Lepri


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