I Quaderni di Gramsci erano trenta Parola di Tania e di Togliatti

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Nello scorso giugno, discutendosi alla Biblioteca del Senato il libro interessante ma troppo affrettato di Giuseppe Vacca su Vita e pensieri di Antonio Gramsci, e venendo inevitabilmente in taglio la questione, ormai sul tappeto, dell’integrità  o meno del corpus dei Quaderni gramsciani, Massimo D’Alema ebbe una felice e a suo modo illuminante battuta: «Non me lo vedo un Togliatti che distrugge un Quaderno, piuttosto lo conserva per un tempo successivo». Effettivamente è questo l’atteggiamento mentale che si dovrebbe avere quando si discorre di grandi testi che hanno costituito, di per sé e in quanto tali, un fatto politico, e che dunque sono soggetti alle vicissitudini, ai tempi e alle necessarie prudenze della politica. Questo vale sempre, non soltanto nel caso di un movimento — quello comunista — che fu anche, nel bene e nel male, una chiesa, come ha rivendicato di recente Mario Tronti celebrando i 90 anni di Pietro Ingrao.
Le raccolte fondanti degli scritti di coloro che sono stati, nella azione e nel pensiero, personaggi storici decisivi hanno di necessità  subìto vicende testuali determinate dalle esigenze di chi, dopo di loro e in nome loro, ha agito. Si potrebbe partire dalla tormentata e affascinante vicenda del canone neotestamentario, e si potrebbe seguitare sul filo dei millenni. Ma, per tenerci al fenomeno storico del comunismo, viene in mente la censura esercitata da Karl Kautsky — più o meno in accordo con l’autore — nell’atto di pubblicare l’ultimo scritto di Engels (1895). E si potrebbe ricordare il destino testuale del cosiddetto testamento di Lenin, che mi è accaduto di ricostruire qualche anno addietro per le edizioni della Fondazione Corriere della Sera: testo per lunga pezza dato per inesistente, e perciò ritenuto inesistente dalla massa dei militanti (ma non dalla élite dirigente) e alla fine sfoderato con clamore e distorsioni interpretative nel corso del kruscioviano XX Congresso del Pcus (1956) e solo allora finalmente inserito nelle opere complete di Lenin (da Mosca alle parigine Editions sociales, ai romaneschi Editori Riuniti). E quanto a opere complete si potrebbe largamente esemplificarne la intenzionale incompletezza — quando l’autore non sia un poeta parnassiano, ma un politico che ha fatto storia — dovuta a ragioni tutte politiche: le quali vanno capite e giudicate non col metro dello scandalo, ma della intelligenza storica. Si pensi alle lacune nella edizione nazionale di Mazzini.
Non paia troppo irenico questo modo di vedere le cose. Nel fuoco dello scontro diviene comprensibile tanto l’occultamento, nelle opere «complete» di Gramsci, della lettera sua al Partito comunista russo (ottobre 1926), culminante nel profetico giudizio «state distruggendo l’opera vostra», quanto la volontà  di tirarla fuori, quella cruciale lettera, da parte di chi non accettava più o riteneva ormai anacronistica la voluta rimozione di quel testo. Siffatte opposte volontà  non si manifestano quasi mai in garbata successione diacronica, ma, più spesso, scendono in lotta l’una contro l’altra. E posso capire quanto sia stata e sia tuttora disagevole la posizione di chi difende la storia sacra di partito fino ad essere superato dalla ricerca scientifica, ostinandosi in tale atteggiamento anche quando si è smarrito l’oggetto cui quella storia si riferiva.
È questo il caso che si è venuto sviluppando intorno al primo e soprattutto al secondo saggio che Franco Lo Piparo ha dedicato alla storia del testo dei Quaderni di Gramsci. Il merito principale del recentissimo saggio L’enigma del Quaderno (Donzelli) è di aver finalmente avviato il lavoro che si doveva fare da tempo: mettere in ordine e vagliare le fonti riguardanti la consistenza di quell’importante corpus. Nello svolgere tale meritorio lavoro, di cui certamente gli editori premurosi del corpus gli saranno grati, egli si è imbattuto in fenomeni che meritavano di essere posti in luce. Un esempio tra tanti è la traduzione di una frase che è anche la prima attestazione sulla consistenza del corpus. Si tratta di una lettera in lingua russa di Tania Schucht, prima tutrice del lascito gramsciano, alla famiglia a Mosca, scritta appena 28 giorni dopo la morte di Gramsci. Ora sappiamo che Tania scrisse: «i Quaderni di Antonio sono in tutto XXX (scritto così) pezzi (XXX Å¡tuk)». La traduzione adoperata dal Vacca suonava strambamente: «i Quaderni di Antonio saranno una trentina»! Che dunque i Quaderni, a parte i 4 di traduzioni, fossero esattamente 30 e non 29 come nell’edizione Gerratana, resta ormai assodato. E mette conto osservare che il dato è confermato da Togliatti stesso in una lettera a Manuilskij scritta due settimane più tardi, l’11 giugno ’37: «Esistono 30 quaderni da lui scritti, che contengono una rappresentazione materialistica della storia d’Italia» (definizione acuta e pertinente, che ovviamente non riguarda i 4 quaderni di traduzioni dalle fiabe dei fratelli Grimm o da un trattato di linguistica).
Da quel momento in avanti si oscilla, nelle fonti sinora disponibili, tra 30, 32 e 34 Quaderni (mai 33 quanti sono quelli fin qui noti). E dunque ci sarà  pure un problema — che in filologia si chiama la recensio dei testimoni conservati o perduti — per gli studiosi che da tempo si affannano su questi testi. Problema che non si risolve (come fece tempo addietro Guido Liguori, l’autore del Gramsci conteso) invocando il turbamento in cui versava l’animo di Togliatti, quando disse e scrisse che i Quaderni erano 34, perché due giorni prima era stato fucilato Mussolini.
Non è il caso di addentrarsi qui ulteriormente nella trama sottile dei riferimenti che lo studio di Lo Piparo raccoglie e mette a frutto, lontano ormai dalle escursioni ideologiche che disturbavano il precedente suo saggio. Spiace invece osservare che, in un momento di malumore, il Vacca, prima ancora di aver letto il volume, abbia definito le nuove acquisizioni documentali che stanno emergendo in questo e in altri ambiti delle ricerche: «ossicini di Cuvier» (piccoli indizi da cui si traggono grandi ricostruzioni). C’è da augurarsi invece che, al di là  delle inevitabili effervescenze della prima ora (intervista a Simonetta Fiori, «la Repubblica», 2 febbraio), anche questo nuovo studio rallegri il lavoro dell’officina gramsciana tuttora all’opera, cui è da augurare serenità  e filologico progresso.


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