Inferno a Damasco, strage di civili

Loading

GERUSALEMME — Il regime e l’opposizione per una volta sono d’accordo almeno nel definire l’attentato che ha ammazzato 53 persone nel centro di Damasco: «Terrorismo». I leader politici dei ribelli non etichettano i colpevoli, non incolpano il clan Assad di complotti (come in passato), temono la mano delle frange estremiste, i gruppi islamici che hanno infiltrato la rivoluzione. Il governo mette tutti insieme, non fa differenze: è dall’inizio dalla rivolta, quasi due anni fa, che accusa i manifestanti pacifici di essere alleati di Al Qaeda.
L’autobomba è esplosa nelle ore più affollate di una zona commerciale come il quartiere di Mazraa, l’obiettivo simbolico è la sede del partito Baath che da mezzo secolo domina il Paese. Simbolico perché i blocchi di cemento e le barriere fermano il kamikaze prima del palazzo: i morti sarebbero sette guardie, il resto civili. È l’attacco più sanguinoso nella capitale dopo quello doppio del 10 maggio 2012, quando le vittime erano state 55. I chili di tritolo e diserbante sono scoppiati vicino a una scuola, tra gli oltre 200 feriti ci sarebbero numerosi bambini. E’ finito in ospedale anche Nayef Hawatameh, uno degli ospiti palestinesi (sempre più ridotti) di Bashar Assad: è il capo del Fronte democratico e il suo ufficio sta a cinquecento metri dal cratere lasciato dalla bomba. Qualche finestra dell’ambasciata russa, non lontana, è finita in frantumi.
Poche ore dopo due colpi di mortaio hanno centrato le caserme dello Stato Maggiore. L’assedio a Damasco continua, le operazioni militari dell’Esercito Libero Siriano cercano di prendere il controllo delle strade di accesso principali. I ribelli non vogliono venire identificati con gli attentati in stile Al Qaeda, sanno di poter perdere il sostegno popolare: la televisione di Stato manda in diretta la rabbia degli abitanti, «è questa la libertà  che vogliono, è questo che chiamano Islam?».
I capi dell’opposizione sono riuniti in Egitto per discutere una proposta di trattativa. Sono disposti a negoziare con rappresentanti del regime «che non abbiano le mani sporche di sangue», escludono di poter accettare che il presidente resti e con lui i notabili alauiti — la minoranza al potere — che hanno coordinato la repressione della rivolta: i morti sono oltre 70 mila.
Anche la Russia, che non ha smesso di sostenere Assad, ormai spinge per trovare una soluzione. Il conflitto rischia di coinvolgere i Paesi confinanti. Gli ufficiali rivoltosi hanno minacciato ritorsioni contro le truppe di Hezbollah (il movimento sciita filo-iraniano e alleato di Damasco) che dalla valle della Bekaa, dall’altra parte della frontiera, bombarda le loro basi attorno alla città  di Qusayr. Il gruppo libanese ha sempre negato di prendere parte alla guerra in modo ufficiale. Il leader Hassan Nasrallah ha solo ammesso che i suoi militanti combattono in Siria «come volontari, per scelta personale». Poco al di là  del confine sono sparsi quattordici villaggi a maggioranza sciita che Hezbollah vuole proteggere. Lo scontro etnico e politico è esasperato attorno alla linea tracciata sulla mappa dal francese Franà§ois Georges-Picot e dal britannico Sir Mark Sykes durante la Prima guerra mondiale.
Israele, che segue la crisi con preoccupazione dalle torrette militari sulle alture del Golan, avrebbe deciso proprio adesso di tentare lo sfruttamento petrolifero della zona catturata con la guerra del 1967. La società  incaricata delle prime perforazioni avrebbe tra gli azionisti anche Rupert Murdoch, il magnate dei media, e come consulente Dick Cheney, l’ex vicepresidente americano. «Attribuire questa licenza — commenta il giornale economico Globes — causerà  il dissenso e le critiche della diplomazia internazionale che considera il Golan territorio siriano occupato».
Davide Frattini


Related Articles

4 novembre, alcuni dubbi presidente

Loading

Quest’anno il messaggio del Presidente della repubblica per il 4 novembre, Giornata delle forze armate, è stato tutt’altro che rituale. Credo sia nostro dovere – scrive Napolitano – non limitarsi alla celebrazione del passato ma guardare al futuro.

Rapporto ritoccato da Cia e governo

Loading

USA/BENGASI Le mail e i dossier rilasciati ieri dalla Casa bianca sulla gestione della comunicazione dopo gli attacchi jihadisti di Bengasi che costarono la vita all’ambasciatore Usa Chris Stevens, dimostrano che fu la Cia a togliere i riferimenti ad al Qaeda, ai gruppi terroristi jihadisti e agli attentati compiuti in precedenza nell’area.

Nigeria, strage in moschea Boko Haram fa 120 morti

Loading

L’emiro locale aveva preso posizione contro i terroristi islamici

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment