Università  addio, persi 60mila studenti in 10 anni

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ROMA — L’università  Statale di Milano, in questi dieci anni, è metaforicamente sparita: 58 mila studenti iscritti possono stipare, infatti, il glorioso ateneo meneghino. Ecco, in dieci anni quei 58 mila universitari non ci sono più in tutto il sistema italiano: si sono arresi prima, hanno abbandonato al secondo, al terzo anno. Di là  delle metafore, il problema — come ha denunciato il Consiglio universitario nazionale — è che in Italia rischiano di sparire sul serio alcuni dei 48 atenei pubblici italiani. «Molti non sono più nelle condizioni, a causa dei tagli subiti, di portare avanti la programmazione didattica». Non lo si dice, ma le università  di Siena e Sassari da tempo hanno bilanci in rosso strutturale.
Il Cun, dopo ampie discussioni, ha deciso di rendere noto un dossier traumatico sullo stato dell’università  italiana e di stilare la sua nota più dura da quando l’istituzione esiste (in questa composizione e con queste prerogative), dal 2006. Scrive il presidente Andrea Lenzi, e invia a tutte le sedi istituzionali e politiche: «Le emergenze stanno ponendo il sistema dell’istruzione e della ricerca universitaria in una condizione di crisi conclamata, che rischia di diventare irreversibile, in conseguenza della quale gli atenei e le comunità  accademiche non saranno più in condizione di assolvere i propri compiti istituzionali, di procedere alla formazione delle giovani generazioni,
di promuovere la ricerca scientifica e di contribuire allo sviluppo e alla diffusione della cultura». Ecco, le innovazioni legislative introdotte «hanno comportato l’adozione di modelli e di soluzioni che si sono volute, incautamente, d’immediata e generalizzata applicazione, senza alcuna preliminare sperimentazione». Le energie delle strutture tecniche e del personale accademico «sono state impegnate nell’assolvimento di pesanti oneri organizzativi e funzionali, spesso di natura fortemente burocratica».
Il dossier racconta come nelle università  italiane ci sono meno studenti (58 mila, appunto), ma anche meno professori e tutto questo perché ci sono meno finanziamenti: «La ricerca scientifica è l’unico motore universalmente riconosciuto per l’innovazione e lo sviluppo, tanto che il resto del mondo sta investendo in ricerca nonostante il periodo di profonda crisi». L’Italia spende solo l’1 per cento del Pil nel sistema universitario (contro una media Ue dell’1,5 per cento) e il Fondo di finanziamento ordinario ha conosciuto una contrazione delle risorse tale da diventare, per il 2013, inferiore all’ammontare delle spese fisse a carico dei singoli atenei. È il crack contabile. «A fronte di tutto ciò appare consolidarsi il rischio di un incremento dell’emigrazione intellettuale delle giovani generazioni, rischiamo di diventare la manodopera d’Europa».
La percentuale di chi s’iscrive all’università  diminuisce costantemente: dal 68 per cento del 2007-2008 si è arrivati al 61 per cento del 2011-2012. Ai diciannovenni la laurea interessa sempre meno: le iscrizioni sono calate del 4 per cento in tre anni, dal 51 per cento al 47 per cento. È diminuita drasticamente anche l’offerta formativa degli atenei: in sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest’anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 specialistici biennali. Gli studenti fuoricorso corrispondono al 33,6 per cento e il 17,3 per cento degli iscritti sono totalmente inattivi (zero crediti formativi). I professori ordinari sono scesi da un massimo storico di quasi 20 mila a fine 2006 agli attuali 14.500 (-27 per cento), gli associati dai 19 mila del 2006 ai 16 mila di oggi (-16 per cento). Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7. Il dossier racconta, infine, che sono stati espulsi dal sistema «la maggior parte degli assegnisti anziani». Pesante la situazione borse di studio agli “aventi diritto”: nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84 per cento degli studenti, nel 2011 il 75 per cento.
Silenzio del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, mentre attacca il segretario Pd Pierluigi Bersani. «C’è il classismo che ritorna, non possiamo accettarlo».


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