Del Turco: ho perso tutto per foto false e calunnie

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Nel salone della sua casa al quartiere Flaminio, il cellulare di Ottaviano Del Turco suona delle voci di vecchi amici. Sollecitati dalle cronache che danno conto delle ultime udienze di un processo di primo grado cominciato a Pescara nel luglio del 2011 che gli costò nell’estate del 2008 la presidenza della Regione Abruzzo e in cui è imputato di associazione a delinquere, concussione e corruzione quale asserito percettore di 6 milioni di euro di tangenti, vogliono fargli sapere che «lo hanno sempre saputo che non poteva essere vero». È come se il massimo sforzo prodotto in dibattimento dalla difesa dell’ex governatore, il deposito di perizie tecniche di parte che contestano in radice il significato e la forza probatoria dei riscontri che la pubblica accusa ha prodotto a sostegno delle parole del grande accusatore di Del Turco, l’ex re delle cliniche Vincenzo Angelini, abbia improvvisamente aperto una breccia. «Io sono convinto che il nostro lavoro sulle prove prodotte dall’accusa abbia fatto prendere al processo un altro giro — dice Del Turco — capace di dimostrare non solo la mia innocenza, ma anche la fondatezza di quello che dissi proprio a “Repubblica” quando questa storia cominciò».
Lei sostenne di essere stato vittima di un “grumo” di poteri forti in Regione che «non tolleravano la discontinuità  politica della sua Giunta». E che Angelini era stato lo strumento della sua «eliminazione per via giudiziaria».
«Esatto. E oggi, alla luce di quello che la mia difesa ha dimostrato, quel giudizio lo ribadisco. Angelini era un uomo disperato e di fronte alla prospettiva di salvare se stesso non gli restava che una possibilità . Offrire in pasto il sottoscritto alla Procura di Pescara».
Ad Angelini non è andata di lusso. È coimputato con lei e ha perso le sue cliniche.
«Angelini, al contrario del sottoscritto, non ha conosciuto né il carcere, né gli arresti domiciliari, né l’obbligo di dimora. Non è stato recluso dal mondo per sei mesi. Né ha dovuto subire l’umiliazione pubblica, la damnatio memoriae, che io ho conosciuto. Angelini ha semplicemente sbagliato i suoi calcoli. Pensava che la Procura lo
avrebbe protetto».
Avete insistito molto, nel processo, sull’inattendibilità  di Angelini, ma proprio sulla base delle sue accuse sono già  state pronunciate due sentenze di condanna a carico di altri imputati nella cosiddetta “Sanitopoli” abruzzese.
«Io parlo per me. E dico che sul mio conto sono state effettuate 104 rogatorie tutte con esito negativo. Che non è stato ancora individuato un solo centesimo dei 6 milioni di euro che avrei ricevuto».
L’accusa le ha contestato alcune operazioni immobiliari.
«Questo tema accusatorio è scolorito durante il dibattimento. E in ogni caso è stato accertato che per quelle compravendite sono state usate provviste che erano sui miei conti ben prima dei presunti episodi di corruzione. Denaro frutto del mio lavoro di Governatore e prima ancora di parlamentare ».
Se Angelini l’ha calunniata, logica vuole che la Procura, un gip, un gup e un Tribunale del Riesame sarebbero stati collettivamente vittime di un gravissimo abbaglio. Possibile?
«Io non credo agli abbagli collettivi. Io penso che la Procura si sia convinta della genuinità  delle accuse di Angelini sulla base di un pregiudizio politico diffuso che, in quell’estate del 2008, assediava la mia giunta. E me ne sono convinto scoprendo che, di fatto, il lavoro di riscontro sulle accuse nei miei confronti è cominciato davvero solo dopo il mio arresto. Penso, per dirne una, che anche la Procura avrebbe potuto verificare per tempo che le foto scattate alla famosa busta piena di mele, noci e castagne sull’uscio della mia casa il 2 novembre 2007, giorno in cui avrei ricevuto una delle tangenti, in realtà  risalgono all’anno prima. O che l’uomo fotografato sull’uscio della mia casa è troppo alto per essere Angelini».
Anche il gip è caduto in inganno?
«Del gip voglio ricordare una sola cosa. Definì i biglietti di solidarietà  che ricevetti in carcere da una trentina di parlamentari, tra cui Bersani, dei “pizzini”».
È un fatto che lei incontrò Angelini nella sua casa di Collelongo.
«Certo. Quattro o cinque volte. Quando mi consegnò l’invito alle nozze della figlia, quando temeva di essere arrestato dallo stesso pm che poi avrebbe arrestato me, il dottor Giuseppe Bellelli, convinto che potessi o volessi intercedere. Cosa che mai mi sarei sognato di fare. Dico di più. Parlavo con Angelini perché mi ero convinto che il disegno degli imprenditori abruzzesi della sanità  privata era chiaro. I soldi erano diventati pochi e dunque era necessario sacrificare il vitello grasso Angelini per spartirsene le spoglie. La mia giunta aveva in testa altro. Un regime che avrebbe imposto tagli a tutti. E questo, evidentemente, dava fastidio».
Ora?
«Ora sono un socialista riformista apolide in attesa di giudizio. Mi sono difeso nel processo e continuerò a farlo. Consapevole che mi è rimasta una sola finestra sul mondo. Una pagina facebook. Convinto anche che ci debba e possa essere un’alternativa tra una “giustizia giusta” che ha il volto di Berlusconi e un magistrato che dà  a un atto di solidarietà  parlamentare una connotazione mafiosa».


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