Il bavaglio degli Ayatollah

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TEHERAN. La redazione del giornale Bahar è in uno di quei quartieri a mezza costa, non più poveri come quelli polverosi e inquinati del sud della città  ai confini col deserto, ma non ancora ricchi e luccicanti di grattacieli abbarbicati alle pendici dell’Alborz come nel nord. Questo quartiere era ed è ancora abitato prevalentemente da armeni, come testimoniano le ottime pasticcerie, e per qualche ragione si è salvato dalla speculazione edilizia e dalle autostrade sopraelevate che squarciano la capitale. Quando suono alla redazione di Baharin un decoroso edificio a tre piani vicino a un viale alberato, la porta si spalanca con violenza e ne escono alcuni uomini, chi in divisa e chi no, che tengono per il braccio un giornalista: mi diranno poi essere il capo della redazione economica.
La visita appena ricevuta non ha tolto al direttore di Bahar l’abituale compostezza. Said Pourazizi continua calmo a supervisionare le ultime pagine del giornale prima che vadano in stampa. È abituato a queste tempeste, dice. È un veterano di quella “primavera” della stampa (Bahar significa appunto primavera), che esplose gioiosa nei primi anni della presidenza Khatami e poi ritornò combattiva a fianco dell’Onda Verde dopo le elezioni del 2009. Anzi, oggi gli agenti della sicurezza sono stati molto misurati, è ironico: hanno semplicemente chiesto del capo della redazione economica e l’hanno arrestato. Il giorno prima, invece, avevano messo a soqquadro la redazione prima di portar via la caporedattrice delle pagine culturali, Emilie Amraei, una giornalista che da anni si occupa di critica letteraria e cinematografica.
La nuova ondata di repressione non colpisce solo gli opinionisti politici, ma chiunque scriva di qualsiasi argomento. Secondo alcuni è una mossa preventiva del regime, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, perché non si ripetano i disordini del 2009 che hanno resopiùdifficileirapporticonl’Occidente anche sul cruciale dossier nucleare. Ma Pourazizi pensa che sia frutto soprattutto dei contrasti interni al regime tra chi è più falco e chi più moderato. «I giornalisti arrestati sono innocenti, parlo non solo dei colleghi di Baharma anche degli altri che in questi giorni sono stati messi in carcere. Li conosco, è gente che ha esperienza, che sa bene quali siano le linee rosse e sicuramente non le ha oltrepassate».
Gli arrestati sono accusati di avere contatti con giornali stranieri: «collaborazione con gruppi controrivoluzionari in lingua persiana », dice l’accusa, in altre parole specialmente con la Bbc.
Gli agenti hanno sequestrato computer e documenti, filmato tutto quello che si trovava in redazione, a Shargh, Bahar, Etemaad, Areman, all’Ilna e in altre più piccole agenzie di stampa. Tutti organi “riformatori”, anche se più che chiamarli riformatori, dice un collega, sarebbe meglio dire giornali che ancora provano a dare notizie vere. Perché in Iran, con la stampa di regime, cioè praticamente quasi tutta, per avere un’idea di quello che succede, le notizie vanno lette semmai alla rovescia.
Per esempio di recente il Teheran Times titolava a quattro colonne: “Piena autosufficienza dell’Iran nella produzione dei macchinari per l’industria dei prodotti petroliferi”. Gli iraniani hanno subito capito che quella era la conferma della voce insistente a Teheran secondo cui l’industria della plastica e dei derivati del petrolio è in grandi difficoltà  dopo che a causa delle sanzioni internazionali ha dovuto sostituire i catalizzatori che aveva sempre importato dall’Italia con quelli di fabbricazione cinese che non corrispondono ai loro impianti.
Il nuovo pugno di ferro contro i giornali ha colto tutti di sorpresa. Dopo la repressione seguita alle proteste dell’Onda Verde la carta stampata era stata lasciata relativamente tranquilla. Sotto attacco erano rimasti solo i blogger; il caso più drammatico era stato quello di Sattar Beheshti in ottobre, rinchiuso a Evin e morto quattro giorni dopo la reclusione: d’infarto, dissero le autorità , che imposero alla famiglia di rinunciare ad ogni cerimonia funebre.
Baharè al suo 56esimo numero. Pourazizi l’ha riaperto alla fine del 2012 dopo che era stato chiuso, per la terza volta, nel 2010 durante l’Onda Verde. Che cosa l’ha spinto a ricominciare? gli chiedo. La resilienza di giornali e giornalisti è un’eccezione nella rassegnazione generalechepervadelasocietà iraniana. Gli iraniani sono stanchi. Le persecuzioni dello scià , la rivoluzione, una giustizia del terrore, la guerra con l’Iraq, hanno lasciato tracce profonde nella psicologia collettiva. Oggi il Paese è come sospeso, in attesa che si risolva qualcosa del suo attuale — ufficialmente negato — isolamento. Sembra di vivere in un “Truman show” dove tutti fingono di credere che quella sia la realtà , sapendo bene che è una finzione. C’è chi è partito e c’è chi si è ritirato in una specie di emigrazione interna. Intellettuali, borghesia, perfino le donne che hanno lottato strenuamente per la parità  dei diritti condividono ormai uno stesso convincimento: resistere è inutile.
«La lotta per la libertà  di stampa in Iran risale ai primo del Novecento, alla rivoluzione costituzionale del 1906», dice Pourazizi. «Gli iraniani nella loro storia hanno conosciuto la piena libertà  di stampa solo per brevi parentesi, chiuse tutte da una forte repressione. Quando fu eletto il primo parlamento riformatore, nel 2001, speravamo inunaleggeagaranziadella libertà  di stampa. Ma la prima cosa che Karroubi, allora presidente del Parlamento, dovette annunciare ai neoeletti deputati fu che il progetto di legge sulla stampa veniva cancellato dall’ordine del giorno dei lavori: una lettera della Guida Suprema vietava di mettervi mano. In qualche modo,
però, anche le continue chiusure e riaperture dei giornali (che acquistavano preventivamente le licenze per poter aprire una testata diversa) contribuirono alla libertà  di stampa. Tra chi entrava in prigione e chi ne usciva, tra chi chiudeva un giornale e chi ne riapriva un altro si era creata come una porta girevole che incoraggiava le vittime a dare testimonianza, e spingeva tutti a parlare».
Gli arresti si intensificarono con la presidenza Ahmadinejad, ma ora anche Ahmadinejad, che vuole continuare a contare in Iran anche se dopo due mandati non può
ricandidarsi alle elezioni presidenziali di giugno, viene ripagato della stessa moneta: il suo collaboratore e ex direttore dell’agenzia Fars, Ali Akbar Javanfekr, è stato condannato a sei mesi di carcere.
«Ho riaperto il giornale perché questo è il mio mestiere», conclude Pourazizi. Alcuni dei giornalisti arrestati saranno rimessi in libertà  su cauzione: un modo con cui il regime cerca spesso di assicurarsi il silenzio. Così come è successo ai riformatori ai quali, dopo aver scontato molti mesi di carcere, la pena è stata recentemente sospesa.
«Vivere con una condanna sospesa sulla testa è quasi peggio che scontarla in prigione», mi aveva detto una volta l’avvocatessa per i diritti umani Mehrenghiz Kar. L’amico a cui telefono è in questa situazione.
Nell’ultimo mio viaggio a Teheran avevo potuto fargli visita nella sua piccola agenzia economica che dirige. Ora mentre telefono sento una agitazione insolita nella stanza, e non capisco che anche da lui ha fatto irruzione la polizia. «Chiama più tardi», dice in un soffio. Quando richiamo, la sua voce trema leggermente. «I am still in my office», sono ancora qui, non mi hanno riportato in carcere. Ma quello è lo spettro che gli viene agitato davanti. Naturalmente non potremo incontrarci, sarebbe per
lui troppo rischioso.


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